Nei giorni scorsi sui social network e nei commenti del Post alcune persone si sono dette meravigliate che il Post non associasse immediatamente l’aggettivo “terrorista” alle citazioni di Hamas e alle spiegazioni di cosa sia Hamas, ma che lo descrivesse dapprima come “gruppo radicale palestinese” e che solo alla nona riga dell’articolo dedicato aggiungesse che “la sua ala armata e in alcuni casi l’intero gruppo sono considerati organizzazioni terroristiche da molti paesi, compresi l’Unione Europea e gli Stati Uniti”, indicando poi che è un “movimento islamista e fondamentalista”.
Qualcuno tra chi ha contestato questa formulazione lo ha fatto con toni ed espressioni violente e aggressive che suggerivano cattive fedi, risentimenti prefabbricati, desideri di polemica e di menare le mani, e il consueto repertorio di fattori che anima una quota consueta dell’uso dei social network: e che in questi giorni si è manifestato nei suoi termini peggiori, facendo perdere ad alcuni il senso delle proporzioni tra una tragedia mondiale e la propria necessità di affermazione di sé. In questi casi a obiettare non sono persone a cui manca un’informazione, ma persone che sono invece certe di averle tutte e contestano quelle che non corrispondono alle proprie, o che corrispondono ai propri bisogni di contestare. Premetto quindi che temo non saranno soddisfacenti per loro queste righe, perché sono inutili rispetto alle loro esigenze: le ragioni che muovono questi attacchi, mi pare, non hanno a che fare col merito delle cose o con la reciproca comprensione, e resteranno tali comunque. Non che questo non sia un problema – la disponibilità a capirsi e ad ascoltare e a mettere da parte se stessi – ma è un diverso problema, e quello cerchiamo di affrontarlo ogni giorno proprio descrivendo le cose con chiarezza e provando a sottrarci tutti a quelle logiche.
Ma ci sono state anche persone evidentemente mosse da sincere curiosità e desideri di capire. Di cui sarei ipocrita se tacessi qui di esserne rimasto comunque meravigliato: e non posso che attribuire i loro dubbi – cercando di spiegarmeli, ma posso sbagliare – da una parte a un panorama talmente sconnesso dell’informazione e del dibattito italiani da far perdere lucidità anche ai più benintenzionati, e dall’altra a un incentivo da parte dei social network a cercare di continuo obiettivi di critica e sfogo. Ma questo non toglie che gli stimoli alle riflessioni siano sempre proficui e preziosi (come vedrete dalla lunghezza di questo post), e quindi provo a dare alcune risposte e anche a condividere informazioni e considerazioni che sono bisognose di più spazio di quello offerto da un tweet. E che spero aiutino all’arricchimento del proprio giudizio, qualunque sia.
1) non è in discussione che Hamas sia un’organizzazione che pratica il terrorismo, naturalmente. Ed è abbastanza impensabile accusare chiunque di volerlo discutere: sforziamoci di non perdere tempo in polemiche sterili e di non litigare dove non ce n’è necessità. Quello di cui stiamo parlando sono i modi con cui un impegno giornalistico sceglie di descrivere efficacemente, con maggior chiarezza e completezza possibili, i fatti e le cose.
2) “terrorista” e “terrorismo” sono due termini con un significato e una storia precisi, anche se un po’ sfilacciati dal tempo: non sono sinonimi di “violento e sanguinario”, non sono sinonimi di “assassino”. Treccani definisce così il sostantivo “terrorismo”: «L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili». “Mediante” è la parola che qui sottolinea l’accezione che intende il terrorismo come strumento, piuttosto che come obiettivo. Le azioni di guerra e guerriglia – anche le più orrende e spietate – volte a sconfiggere o annientare il nemico, e a ottenere risultati e guadagni diretti, sono una cosa diversa – per quanto con estese sovrapposizioni e relazioni – da quello che chiamiamo terrorismo: che definiamo appunto per il suo obiettivo di creare un clima di “terrore” che indebolisca un contesto e lo renda più vulnerabile. La parola “terrorismo” indica una strategia che è senz’altro tra quelle adottate da Hamas, ma non la sola, spesso non la principale: che definisce parzialmente la sua identità e che corrisponde solo in parte all’attacco senza precedenti dispiegato sabato, dove strumento e fine sono difficili da separare (un portavoce di Hamas ha sostenuto sabato che i civili uccisi non dovessero essere considerati civili, ma nemici e “appartenenti all’esercito israeliano” in quanto coloni su terre occupate nel 1948; e parliamo di un movimento che proclama lo sterminio degli ebrei come obiettivo).
3) solo poca bibliografia recente su questo: il Washington Post ha pubblicato ieri un articolo interessante che parla tra l’altro della difficoltà di distinguere tra atti di guerra e di terrorismo, e di definire l’attacco di Hamas in quest’ottica, per chi sia interessato ad approfondire: e anche questo articolo di oggi del New York Times pone la questione, con una titolazione che descrive un’intenzione corrispondente al significato di terrorismo e un testo che invece spiega l’attacco di sabato come un atto di guerra e le stragi come obiettivo piuttosto che come strumento. Completo con questo passaggio dal Guardian di oggi: «Hamas has never balked at using terrorism – indeed it has celebrated it again and again – but last weekend’s murderous rampage denotes something else».
4) per provare a distaccarsi dal coinvolgimento che ci travolge tutti in quello che sta succedendo in questi giorni, faccio un esempio distante: è piuttosto provato e condiviso, anche in sede giudiziaria, che Donald Trump sia un bugiardo, ed è una cosa utile da spiegare per descrivere Donald Trump, ma non il tratto più immediato con cui il Post lo indica (“l’ex presidente bugiardo degli Stati Uniti Donald Trump”).
5) anche conoscendo bene l’uso di strategie terroristiche da parte di Hamas, scegliere quindi come definizione limitata e prioritaria di Hamas la parola terrorista è fuorviante e semplificatorio, rispetto ad articolare di più una sua descrizione; oppure risponde alle intenzioni di un giornalismo per cui la parola “terrorista” serve come espressione di disprezzo, e che usa quindi le parole come statements e non per spiegare le cose: scelta legittima ma diversa da quella che fa il giornalismo del Post ogni giorno. Chiunque sappia poco della storia di Israele e della Palestina – ovvero la stragrande maggioranza di noi – e a cui si descriva Hamas come un “gruppo terroristico palestinese” se ne farà un’idea del tutto inadeguata, assimilandolo alle Brigate Rosse o all’IRA, se sa cosa sono, o a compagini occulte, clandestine e circoscritte (ancora l’altroieri una persona adulta su Twitter vittima di queste semplificazioni non credeva possibile che Hamas, che governa Gaza, abbia degli uffici). Hamas a Gaza è un partito, è un’istituzione, vive alla luce del sole e dispiega quotidianamente le sue attività: è una organizzazione di una scala che va spiegata, che viene spesso assimilata dai media internazionali a un governo (ma anche dai governi democratici: e pure da Israele, che ci parla e ci tratta), e che non si può ridurre a un’etichetta delimitata e poco significativa se si vuole informare bene. Se si teme poi di non usare parole abbastanza severe con quello che Hamas fa e ha fatto sabato – ma il Post è un giornale, malgrado le emozioni e le rabbie di chi lo fa siano le stesse di tutti – ci sono termini molto più adeguati e drastici di “terrorista”, per chi ha trucidato centinaia di civili innocenti in questi giorni, e quei termini li abbiamo in testa e in bocca tutti. Anzi, per giudicare come merita l’efferata deliberatezza di uccidere e infliggere sofferenza, l’idea che quelle stragi possano essere considerate soltanto come uno strumento terroristico è quasi un’attenuazione.
6) il Post, dicevo, non usa le parole come statements: che è invece una scelta che fanno diversi giornali italiani, e questo forse può spiegare come mai diverse persone la considerino normale e persino la richiedano. Molti titoli che leggiamo in giro parlano alle emozioni, annunciano da che parte stare, indicano quale nemico avere. Lo statement del Post è far capire le cose al meglio, creare le condizioni perché chi lo legge la scelga, la parte da cui stare o l’opinione da avere o le parole da usare, invece che dirgli o dirle perentoriamente e a forza di slogan quale questa deve essere: magari usando parole ingannevoli che confortano le indignazioni, oppure semplificazioni che conservano le ignoranze. Una volta saputo cos’è Hamas, cosa fa, cosa ha fatto sabato, come è considerato dalle istituzioni internazionali e dalle nazioni, ognuno è in grado di scegliere da solo le parole con cui vuole definirlo.
7) ho scritto molto, scusate, perché in questi giorni pensiamo e discutiamo tutti molto, e a questo punto immagino che alcuni possano vedere in queste spiegazioni “troppa complessità”: è un’espressione che ultimamente affiora dove c’è – comprensibile, umana – voglia di parole spicce, scelte spicce, azioni spicce. Spazientimento. A queste reazioni offro allora un argomento semplice e poco complesso: nessun articolo analogo sulle maggiori testate internazionali ha usato formule diverse da quelle usate dal Post o ha ritenuto di usare l’aggettivo “terrorista” per descrivere Hamas. La quasi totalità lo ha indicato come “militant group”, in sintonia con il termine “gruppo radicale” usato dal Post (mi auguro che nessuno – a parte la Verità, che ha una vendetta da consumare e che fa peraltro un frequente uso del termine “radical chic” – conosca il significato dell’aggettivo “radicale” soltanto nel senso di appartenente al “Partito Radicale” italiano). Questo non dimostra per forza che la scelta sia giusta: potremmo avere sbagliato noi, il Washington Post, la BBC, il New York Times, Reuters, Le Monde, il Guardian, il Wall Street Journal e persino l’israeliano Haaretz: ma non ho notato tra i messaggi ricevuti nei giorni scorsi che venissero contestate le scelte unanimi di queste testate.
Potremmo avere sbagliato, certo: è capitato che abbiamo sbagliato e capita, e chi conosce il Post sa quanto ci confrontiamo con le scelte delle parole, quanto ci riflettiamo e come ci dedichiamo a correggerle o rivederle anche a distanza di molto tempo quando realizziamo un errore. Non ci sembra questo il caso, per chi lo ha chiesto.
p.s. grazie alla segnalazione di Marco su Twitter vedo adesso questo intervento di BBC: “Perché BBC non chiama terroristi i militanti di Hamas“.