È un post strano, lungo e tirato via. È che abbiamo ordinato da bere delle cose in un bar di Milano, vedendosi tra amici al ritorno delle vacanze, probabilmente troppe cose da bere e troppe vacanze, perché ci siamo impelagati in una riflessione universale sulla piega che stanno prendendo le cose che si è risolta in una lettura apocalittica e disarmante da cui, la mattina dopo, prendo alcune distanze. Non va tutto così male, e conserviamo estese ragioni di felicità: ma ho messo in successione logica le cose – abbozzate – che ci siamo detti, che alcune invece hanno pezzetti di senso, con l’obiettivo indicato nell’ultima frase.
Quando siamo nati, ognuno di noi, eravamo egoisti e ignoranti. Ogni neonato lo è: ma nei secoli le nostre civiltà hanno costruito un’idea di civiltà, appunto, basata sull’idea che sia meglio per tutti – individui e comunità – essere sempre meno egoisti e sempre meno ignoranti. Filosofie, culture, correnti di pensiero, religioni, hanno attecchito su questi presupposti. Che ci sia un bene comune, che si debbano rispetto e sensibilità agli altri esseri umani, che queste cose e la propria felicità si ottengano anche attraverso l’istruzione, la scienza, la cultura. Ci siamo insegnati ad essere più altruisti e più colti, a cominciare a lavorarci appena nati.
L’egoismo non è una cosa binaria, che o lo sei o non lo sei. Tra l’egoismo assoluto di chi pensi solo a se stesso e l’altruismo assoluto di chi ami il suo prossimo come se stesso, qualunque prossimo dei sette miliardi che siamo, ci sono infinite varianti: e ognuno di noi ne vive una. Quando chiamiamo qualcuno egoista è perché ci sembra che il suo disinteresse per gli altri abbia superato un’idea condivisa di solidarietà ed empatia, elastica ma grossomodo chiara; quando lo chiamiamo altruista è perché ci sembra che sia il suo disinteresse per sé a superarla.
Le persone non sono mai completamente egoiste: c’è sempre una comunità di “simili” – o concentriche comunità di simili – a cui ognuno si sente più vicino e per cui ognuno è disposto a sacrificare qualcosa di sé. La propria famiglia, i suoi concittadini, quelli che gli somigliano somaticamente, quelli che condividono la sua cultura, o i suoi interessi, quelli che parlano la sua lingua, i suoi connazionali, gli esseri umani, gli animali.
La spinta a essere meno egoisti e ignoranti che le nostre civiltà hanno costruito e che ci accoglie e circonda quando nasciamo è sempre stato lo stimolo del progresso umano e civile, di quello che gli umani e le loro società hanno saputo diventare: unito agli innati bisogni e ambizioni personali, che abbiamo pure appena nati e sono strumenti essenziali di quel progresso.
Quella spinta ci fa sapere, appena nati, che per ottenere successo, felicità, condizioni di vita migliori, rispetto e amore degli altri, bisogna impegnarsi molto, studiare, imparare, essere umili, trattenere i propri egoismi e prepotenze. Non è facile, impone sacrifici quotidiani, è spesso frustrante, ma ne vale la pena. Più cose si imparano, più si aiutano gli altri, meglio si sta e meglio si fanno funzionare le comunità concentriche intorno a sé, e quindi meglio ancora si sta, eccetera. Un’idea di giustizia e una di efficacia si sommano, e generano benessere, o felicità: più persone contribuiscono, più benessere.
Però sono sacrifici, e frustrazioni, anche: bisogna impegnarsi, lavorare, studiare, tollerare gli altri, accettare che non tutti contribuiscano e non farsene demotivare, trattenere emozioni e reazioni innate perché sterili o controproducenti. È una fatica, tanti non la sopportano e si sottraggono a queste prospettive, preferendo pensare a se stessi a danno degli altri, preferendo le proprie misere e ignoranti sicurezze allo sforzo di comprensione della realtà: per disincentivarli abbiamo costruito un’idea di riprovazione sociale nei confronti di questa fuga dalla responsabilità, da ciò che è giusto e dal bene degli altri. Lo abbiamo chiamato comportarsi male, e siamo stati capaci (complici le religioni, le filosofie, le scuole, secoli di lezioni formidabili) di creare delle contromisure: sanzioni formali, culturali, sociali, sensi di colpa, giudizi morali, vergogna, riprovazione da parte delle comunità e degli individui. Comportarsi male, essere ignoranti, egoisti, prepotenti, irrispettosi, non va bene, abbiamo stabilito. Come tutte le misure repressive ha funzionato per molti umani, non ha funzionato per altri, creando una sofferenza.
È come se in questi tempi stesse scomparendo questo sistema di riprovazione e disincentivi al comportarsi male. È come se questi “altri” resistenti all’impegno e alla fatica di migliorare se stessi e il mondo in cui vivono avessero scoperto che invece che fare tutte quelle fatiche insopportabili per evitare di essere mal giudicati, si possa semplicemente smontare il sistema e la costruzione della civiltà e sostituirli con un’altra costruzione: che dice che no, non bisogna diventare meno egoisti e ignoranti, che va bene così, restare neonati. Nessuna fatica, nessun impegno, oppure molti meno: quelli che bastano per volere il bene di una comunità ridotta intorno a sé. La propria famiglia, i propri amici, i propri molto simili. Al diavolo gli altri. E soprattutto al diavolo quell’idea di bene comune, di progresso, di cultura e altruismo.
Come è successo e come è successo adesso? Per due grandi ordini di ragioni, soprattutto. Uno è che qualcuno è stato capace di costruire delle retoriche efficaci per legittimare questa ribellione: le battaglie contro il “politically correct”, la narrazione populista, gli attacchi alla scienza, agli intellettuali, alla cultura, al “buonismo”, lo svilimento e la calunnia nei confronti del predicare bene ma persino del razzolare bene. Sono tutti fattori di un movimento in parte spontaneo e in parte deliberato che è servito sia ad assolvere le coscienze di egoisti e/o ignoranti che se ne sono fatti interpreti e complici, sia a costruire un progetto di ribaltamento dei valori utile a raccogliere consenso per interessi e ambizioni di ogni scala (fino alla presidenza degli Stati Uniti, per dire).
L’altro ordine di ragioni è un progressivo aumento del senso di frustrazione e delusione di una gran quota di persone rispetto alle aspettative e alle richieste di successo e libertà che le nostre società andavano creando intorno a loro: società che mostrano che studiare fino a finire l’università non consegna più stabilità economiche, e che esaltano e promuovono i successi superficiali di totali ignoranti, per esempio. È la nostra civiltà stessa, o la sua parte progressista, a essersi ritirata dall’impegno sull’istruzione, sulla cultura, sull’estensione del bene comune, convinta che fossero cose che ormai avrebbero proceduto per inerzia: il progresso inarrestabile. Si è “distratta un attimo” e quello si è arrestato, complici le suddette volontà avverse.
Benché tutto sia ciclico e ci siano precedenti a molte cose (la predicazione egoista che progressivamente legittima e teorizza con una retorica efficace e utilitaristica le persecuzioni più disumane, per esempio), qualcosa è completamente nuovo. I campi di concentramento, benché “in molti sapessero”, erano tenuti nascosti, per restare a questo parallelo: un’idea di “male” era conservata e temuta, man mano che lo si praticava. Oggi l’esibizione fotografica dei campi libici per una cospicua parte di persone non genera nessuno scandalo, e casomai una reazione di prezzo necessario, “utile”.
È questa la cosa nuova, se c’è: non stiamo soltanto facendo passi indietro rispetto a un’idea radicata e condivisa di bene, a quell’auspicio di progresso, alla progressiva riduzione di ignoranza ed egoismo: stiamo smontando quell’idea radicata e condivisa, togliendole senso. Non abbiamo solo smesso di seguire il libretto delle istruzioni, stiamo cambiando le istruzioni. Le istruzioni predicate, maggioritarie, vincenti, stanno diventando altre: “le battaglie contro il “politically correct”, la narrazione populista, gli attacchi alla scienza, agli intellettuali, alla cultura, al “buonismo”, lo svilimento e la calunnia nei confronti del predicare bene ma persino del razzolare bene”. Fino all’inversione definitiva, la battaglia contro i fatti: con la demolizione della scienza, con la teoria dei “fatti alternativi”, con la dialettica ingannevole che aggira la verità (“chi ti paga?”, “ben altri sono i problemi”, “e allora quest’altro?”, eccetera). La fine del valore vincente della “ragione”.
In questo contesto, trovare il modo di opporsi e sconfiggere queste nuove istruzioni sembra al momento impossibile: la nuova costruzione è imbattibile e paralizzante, se annulla gli stessi strumenti logici e comunicativi con cui poterla battere, la verità, la scienza, il bene comune, la ragione. Hai voglia a pensare ingenuamente che ricorrendo al passato, alle idee precedenti di progresso e altruismo e giustizia, all’illusione che annullando una momentanea distrazione dal loro ruolo i progressisti mondiali possano tornare a unirsi e rimettere le cose in carreggiata: non c’è più la carreggiata. È come voler diventare ricchi in un mondo che abbia abolito il valore dei soldi: e nei master in economia continuano sventatamente a insegnare come si costruisce un’azienda di successo. E nei dibattiti a sinistra o tra gli intellettuali, oggi, si continua a chiedersi come ritrovare la forza e gli strumenti per far passare istruzioni ridicolizzate e annientate: si pensa che sia un problema di “fronte comune”, di “unire la sinistra”, di appelli, impegni sociali, recuperare contatto, bla bla. Come se ripetere “ho ragione io” con un megafono molto grande convinca più persone che hai ragione tu.
Usare gli strumenti comunicativi dei vincitori – la prepotenza, la falsificazione, l’aggressione, la demagogia – non può funzionare: si diventa come loro, sono i mezzi che definiscono quello che siamo e quello che otteniamo. Fare il bene nella pratica quotidiana ottiene risultati puntuali nella pratica quotidiana, ma non è più un esempio comunicativo efficace: viene accolto con risentimento e disprezzo da chi non lo fa, e calunniato e irriso. Restituire valore alla cultura, all’attenuamento dell’ignoranza individuale, è diventato difficilissimo: la cultura non ottiene più né il rispetto sociale di un tempo, né il successo pubblico o economico di un tempo. Le nostre società e i loro mezzi di comunicazione hanno raccontato che si ottengono successi, popolarità, follower, soprattutto esibendo superficialità e ignoranza (salvo rari casi di grandi talenti artistici) piuttosto che cultura e intelligenza e competenza.
Alle persone di buona volontà rimane di fare del bene nella loro parte di vita e di mondo, più o meno piccola, sperando che non cresca troppo da essere individuata e demolita dalla retorica corrente. E aspettare che le cose cambino in modi imprevisti – capita, nella Storia – o che a qualcuno venga un’idea geniale.