Come ho scritto qualche giorno fa, per me le cose più impressionanti del documentario di Netflix sulla morte di Yara Gambirasio non sono quelle che riguardano la colpevolezza o meno della persona condannata (diffido di tutto quello che incentiva l’esibizione di opinioni su cose così gravi) e nemmeno quelle che riguardano la correttezza o meno dei processi (e qui più che opinioni ci sono fatti): ma sono quelle che mostrano e illuminano procedure abituali di pubblici ministeri, di forze di polizia, di mezzi di informazione.
Ci torno perché oggi circolano delle indignazioni – del tutto ragionevoli – rispetto a quello che è successo in un altro caso, per scelta e responsabilità delle istituzioni che indagano e dei giornali: ovvero la diffusione di registrazioni di colloqui in carcere e la gogna pubblica per un parente dell’accusato.
Però è successo quello che è la norma: lo sputtanamento persino delle famiglie e dei parenti degli accusati per ottenere i consensi più viscerali e facili a beneficio dell’accusa e dei giornali stessi.
Nelle indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono stati dati ai giornali dei video falsificati dai carabinieri; sono stati fatti e occultati sbagli e imbrogli sulle analisi del DNA (la pm è per questo indagata per frode e depistaggio, ma realisticamente sarà tutto archiviato); con impressionante compiacimento («ma lei lo sa, che sua moglie aveva degli amanti?») la pm ha rivelato all’accusato in carcere le relazioni di sua moglie, insignificanti per l’indagine; sono state raccontate dall’accusa cose parziali e ingannevoli sulle celle telefoniche; l’accusa ha ritenuto di elencare a processo i titoli dei video porno visitati online dalla moglie dell’accusato; tutto sistematicamente ripreso dai giornali; e ai giornali – che ne sono andati matti – sono state raccontate cose false sui contenuti pedopornografici trovati nel computer dell’accusato (non sono stati trovati). E ancora oggi se cercate gli articoli online degli anni passati una enorme quota vi riferirà cose poi dimostrate false. Sono queste le parti istruttive del documentario, piuttosto che il dibattito sulla colpevolezza o meno dell’accusato e le critiche alla faziosità degli autori e della loro argomentazione evidentemente a tesi: e di queste parti – tra i critici del documentario – sarebbe bello e rassicurante che qualcuno dicesse che sono inventate. Che indagini e processi e giornali non funzionano così.