Dream of Californication

Alla guida della sua berlina un giovane avvocato in giacca e cravatta rientra a casa battendo il ritmo sul volante. In un’altra città, una studentessa di geologia in jeans e t-shirt curva sui libri in camera sua tiene il tempo muovendo la testa. Nel centro sociale di una terza città un ragazzo in bomber, anfibi e capelli arancioni, batte i pugni sul banco del bar, la musica a volume assordante. La musica è la solita, per tutti e tre e per altri milioni in altre città e altri paesi, una canzone che dice “saluta mamma e papà, perché questo panorama solitario lo dividerò solo con gli uccelli”.

La canzone, Scar Tissue, è una delle quindici di Californication, il nono disco in quindici anni dei Red Hot Chili Peppers, una band di esaltati che le classifiche hanno riacciuffato dalle viscere dell’inferno in cui si era cacciata, per metterla al primo posto in mezzo mondo in forza dei quattro milioni di dischi venduti in tre mesi. I Peppers sono la risposta insindacabile che il rock dà a quelli che ciclicamente lo vogliono dare per morto. Incarnano tutti i cliché della band dannata, addirittura enfatizzandoli, con opportuno corredo di comportamenti sopra le righe, e fanno una musica tosta, dura, attraversata da intervalli pop leggeri e melodici che farebbero gongolare un Paul McCartney. La parte ruvida, il rock, hardcore, postpunk, chiamatelo come vi pare, riflette i personaggi e i loro atteggiamenti più sfrontati. Il lato lieve e gradevole li fa scrivere bellissime canzoni e gli ha fatto vendere una quantità di copie di Californication inimmaginabile per un gruppo così lontano dai cliché di accessibilità per il grosso pubblico. Tanto che raramente un disco in testa alle classifiche di vendita ha avuto un successo di critica così unanime e sincero.

In un tempo così segnato dalle strategie di marketing che si sostituiscono ai musicisti, la storia di tanto successo ha camminato invece sull’orlo di un burrone, anzi di due o tre burroni. Nel 1992 il primo disco di successo mondiale è Blood Sugar Sex Magik, il secondo in cui del quartetto fa parte un nuovo musicista, il giovane John Frusciante, che la leggenda vuole essere un fan talmente invadente e bravo da essere assunto come chitarrista. La canzone Under The Bridge si guadagna le classifiche mondiali e figura in tutte le graduatorie delle migliori del secolo così di moda in questi giorni. La sua orecchiabilità arriva ad invitare a un remake, l’anno scorso, il gruppo delle All Saints, ragazzine concorrenti, invano, delle Spice Girls. I Peppers si fanno notare con atteggiamenti violenti e osceni, suonano spesso coperti soltanto dai loro tatuaggi, e fa il giro del mondo una foto che li ritrae vestiti solo di un calzino sportivo al posto giusto (“Le scopo solo per guardare che faccia fanno” dice uno dei loro testi di allora). Ma in piena crisi da successo Frusciante abbandona la band durante una tournée in Giappone, e mentre il suo batter d’ali scatena il titolo di un bestseller giovanile in Italia, i dischi che seguono ne risentono, soprattutto nelle vendite. Nel 1997 abusi di droghe e incidenti di moto hanno ridotto il quartetto all’incapacità di produrre o suonare alcunché. Kiedis e Flea, i due membri originari (Smith è arrivato con Frusciante nel 1989, alla morte del chitarrista Hillel Slovak) rischiano la vita ancora nella comune passione per i viaggi avventurosi tra orsi dell’Alaska o nelle acque del Gange, ma proprio così trovano la forza per la catarsi e la resurrezione. Decisi a risollevarsi dalla devastazione di eroina e quant’altro, vanno a ripescare il vecchio Frusciante (che in realtà coi suoi 29 anni è il solo non trentaseienne dei quattro): “quando se ne andò fu come se mi avessero tagliato un coglione” dice Kiedis. Il bel ragazzo di sei anni prima è intanto diventato una spiacevole parodia del Jim Morrison dei tempi peggiori, pieno di droga fino alle orecchie, abbandonato nei bar di Los Angeles senza denti e pieno di cicatrici. “Gli spiriti mi parlarono e mi dissero che non volevo morire”, racconta, e gli spiriti lo portarono in una clinica, lo ritirarono fuori e gli misero una chitarra in mano.

Con John Frusciante e i suoi denti ricostruiti i Red Hot Chili Peppers hanno inciso Californication, un inno alla globalizzazione della cultura californiana (con immancabile doppio senso), che non dimentica i testi arditi e i grandi ritornelli pop su un background rock duro e aggressivo. Ha creato meccanismi di successo trasversali ed è stato il bestseller dell’estate in Italia e in Europa. Il primo riff del disco dice “Lo so, lo so per certo, che la vita è bella in giro per il mondo”.

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