Quattro chiacchiere con Natalie Merchant

Alla fine di una conversazione assai varia, che definire “intervista” sarebbe una sopravvalutazione o una sottovalutazione (ci arrivo), Natalie Merchant mi dice che della Toscana conosce soprattutto Poppi. Ora, io non sono mai stato a Poppi, e so solo che è in provincia di Arezzo perché ho sentito ripetere il nome tante volte e per molti anni: perché c’era una scuola di italiano per stranieri che fu creata con altre persone e grandi passioni da un caro amico dei miei, Clemente, una persona speciale delle molte persone speciali che avevo molto frequentato da bambino. E quindi chiedo a Natalie Merchant: “e tu perché conosci Poppi?”.
“Perché a un certo punto nel 1995 o 1996 volevo imparare l’italiano e un’amica mi consigliò una scuola di italiano per stranieri che era a Poppi. Ho fatto molto amicizia con una famiglia di lì, anche se il mio italiano è quello di un bambino di quattro anni, ora”.

È sera e ho pensato tutto il giorno a Clemente, che è morto cinque anni fa, a mia madre che si è occupata di pubblicare una raccolta di suoi articoli, a come è riapparsa questa cosa, alle coincidenze, ai gradi di separazione, alle tante cose impensate che capitano, nelle vite. Tipo questa conversazione con Natalie Merchant, che la prima volta che ho saputo di lei già stava vincendo dischi di platino e io ancora dovevo dare metà esami e vivevo a casa di mia madre: e siamo quasi coetanei. Sono pensieri miei, in effetti, poco interessanti.

Natalie Merchant invece ha appena compiuto sessant’anni ed è dopo tanto tempo in un tour europeo, che finisce con due concerti lombardi: non cantava in Italia da vent’anni. Un gentile ufficio stampa mi ha combinato questo incontro in un albergo milanese non alla sua altezza, che dovrebbe essere un’intervista, ma io poco professionalmente mi ci sono disposto come avessi incontrato Natalie Merchant sul treno per caso e vivessi ancora a casa di mia madre. Natalie Merchant dei 10,000 Maniacs, e di una montagna di belle canzoni sue dopo. Canzoni tristi soprattutto: «Alle persone, ma anche a me, piacciono, le canzoni tristi: ci fanno sentire come se le nostre tristezze fossero una cosa comune, condivisa, persino confortevole a rimanerci dentro. E poi a me viene da mettermi al piano quando sono triste; quando sono allegra e mi diverto faccio altro».

Dieci giorni fa ho già visto il concerto a Londra, le chiedo come è stato per lei, se ci sono differenze tra una sera e l’altra. Risponde una cosa apparentemente banale, che no, che quella cosa di tutte le persone arrivate per vedere e sentire lei la entusiasma ogni sera, che poi le capita che la riconoscano e la fermino fuori, in giro, e le raccontino da dove sono venute e le sembra ancora una cosa speciale, «certi non conoscono nemmeno l’inglese». Se non mi pare una risposta così banale è perché sul palco in realtà sembra molto concentrata su se stessa e sulla musica, come se ne godesse ogni momento un po’ per conto suo, ballando come se fosse da sola nel suo soggiorno con la musica alta, e occasionalmente fissando qualcuno nel pubblico ma come se non lo vedesse. «È che è tutto molto preciso, sul palco, sono sempre concentrata. Sono con la band, sono la direttrice d’orchestra, loro seguono me, penso a far funzionare le cose al meglio, non c’è niente di improvvisato». E non ti annoia, questa ripetizione esatta? «No, mai. C’è, uno spazio di improvvisazione: canto. Le differenze le faccio con la voce».

Sul palco balla, ho detto, scalza, e facendo svolazzare con grande eleganza i vestiti colorati (due, nelle due parti del concerto). Niente di strano, direte voi: Mick Jagger sul palco balla a ottant’anni. Il fatto è che Natalie Merchant non si muoveva più, tre anni e mezzo fa: «una rigidità improvvisa, qui, sulla spalla; e poi sempre di più». Una cosa della colonna vertebrale, che non capisco abbastanza in termini medici da poterla riferire accuratamente (“ossificazione del legamento longitudinale posteriore”, leggo googlando), ma lei mi mostra la cicatrice sul collo, dell’operazione. «Mi hanno tolto tre ossa e ci hanno messo quelle di un ragazzo che era morto a ventun anni». Una cosa del tutto inattesa, assai dolorosa, che l’ha tenuta ferma durante il primo anno della pandemia, e adesso miracolosamente rammendata, come è rammendato il suo rapporto con la musica: «non avevo più scritto canzoni per molti anni, mi ero impegnata in molte campagne e progetti che mi parevano importanti – contro il fracking, in difesa delle donne vittime di violenze domestiche, volontariato – e la musica mi sembrava una cosa frivola, egoista, al confronto. E poi mi sono voluta occupare molto di mia figlia». E cosa è cambiato?, chiedo, perché tornasse a scrivere e cantare. «Il lockdown, la malattia: sono dovuta stare ferma e a casa, rinunciare a campagne e proteste e impegni, e mi sono rimessa sulle canzoni. Mia figlia ha vent’anni e ora è al college». Quindi ti sembrano ancora una cosa frivola? «No, perché poi vedi che effetto hanno sulle persone, ed è un buon impegno anche quello». E lo vedi solo adesso? Te ne sei preso, di tempo. «Già. A volte le cose più ovvie non sono quelle che capisci subito». Ma non lo dice così gravemente, c’è una serietà leggera e serena nelle cose che dice.

«Mai stata tanto felice», mi dice, citando soprattutto la sua soddisfazione per quello che vede in sua figlia («riesco a vederla 80% adulta, e 20% bambina»), ma anche tornando sulle canzoni tristi e su che cosa abbia di nuovo e diverso il disco uscito a primavera e che sta promuovendo con questo tour. «È un disco con una produzione più ricca, è il migliore disco che abbia mai fatto». È una cosa che si dice sempre, penso, e mi scappa di dirglielo: dai, hai mai pensato di un disco nuovo che non fosse granché? «No, ma un paio di volte ho lavorato a nuove registrazioni di vecchie cose ed ero meno motivata. Preferisco fare cose nuove». Ma intanto la cosa nuova a cui sta lavorando è italiana, e nasce dalla sua passione per Lina Schwarz, poetessa e scrittrice ebrea vissuta fino al 1947, autrice soprattutto di poesie e filastrocche per bambini, autrice – me lo spiega lei, io ignorante totale – di Stella stellina, che mi recita nei primi versi, e poi un’altra su un rinoceronte e un’altra ancora. Prima di quel corso di italiano a Poppi per Natalie Merchant c’erano stati i nonni paterni – Mercante – immigrati dalla Sicilia a Jamestown, New York, dove poi lei è nata, e mai tornati indietro. «Le cose italiane sono sempre state presenti, quando ero bambina. C’è una metà di me che è cambiata molto da quando ho iniziato con la musica, a diciotto anni, e una metà che è rimasta quella, ancora con quelle curiosità. Allora non sapevo bene quello che facevo, ora ho una sapienza e consapevolezza molto maggiori sulla musica: ora so stare davanti a un’orchestra, in un modo che non avrei immaginato allora». Un po’ di cose le ho combinate, dice, e la confidenza con gli altri musicisti, la fiducia del pubblico, sono cose che quando invecchi diventi più capace di apprezzare.

Poi parliamo un po’ di Sister Tilly, la canzone dedicata alle “donne della generazione di mia madre”, che hanno lottato per cambiare le loro vite. «Mia madre ha avuto la vita trasformata dalle rivoluzioni culturali dei suoi tempi: è cresciuta cattolica dentro un contesto molto conservatore ed è stata capace di diventare una donna libera ed emancipata, di divorziare da suo marito, di occuparsi di quattro figli da sola, di lavorare da imbianchina con gruppi di operai maschi, arrampicandosi con loro, di smettere di portare un reggiseno e di truccarsi, di trasferirsi da conoscenze con vite tradizionali e borghesi ad ambienti di giovani artisti: eravamo circondati da persone che parlavano di letteratura e filosofia, ascoltavano jazz e musica classica. Quelle erano donne forti».

Il discreto responsabile dell’ufficio stampa si affaccia per dire che devono andare a Radio Popolare, ma c’è il tempo di finire quello che mi stava dicendo. Quello che mi stava cantando, cioè: «Bolli bolli pentolino, fai la pappa al mio bambino, la rimescola la mamma, mentre il bimbo fa la nanna».

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