Gli anni del cannibalismo

Da diversi mesi il dibattito pubblico – giornali, politica, noialtri al bar – si è accorto che in Italia c’è un grosso problema psicologico, oltre che economico, politico, culturale: che anzi rafforza questi ultimi. Ed è quello per cui da qualche tempo vengono usate le parole “risentimento” o “rancore”: ieri sancito ulteriormente con i commenti intorno a una ricerca del Censis che ha citato proprio il rancore diffuso come il maggiore fattore di paralisi dello sviluppo della società italiana.

Ora, tolta alle formulazioni serie di questo genere, la questione ci è stranota, almeno a noi che ci leggiamo da queste parti: di come siamo tutti incazzosi, frustrati, polemici, in cerca delle più facili scorciatoie per esistere e rassicurare le nostre insicurezze – ovvero prendersela con qualcuno e dargli la responsabilità dei nostri fallimenti reali o percepiti – parliamo da un pezzo, e le analisi che ne leggiamo oggi sono senz’altro più chiare e familiari di quelle che citano fenomeni economici più complessi e sotterranei.

Ma a costo di ripeterci, io lo direi che il principale veicolo di diffusione del “risentimento” e del “rancore” stigmatizzati oggi sono stati i mezzi di informazione e i rappresentanti politici che da anni e anni promuovono in maniera strumentale e interessata il concetto di “indignazione” fine a se stessa: dico fine a se stessa perché non voglio negare che esistano nel nostro paese e nelle nostre società dei reali motivi di indignazione, né che questa possa in teoria generare reazioni costruttive. Ma in Italia negli ultimi vent’anni la propaganda sull’indignazione – quella che l’ha nobilitata sterilmente fino a formule auto celebrative come “riuscire ancora a indignarsi” (come se servisse uno sforzo) e citazioni abusate come “odio gli indifferenti” (come se l’alternativa al ringhiare fosse il tacere) – è stata solo demagogia utile a guadagnare consenso politico, pubblico televisivo o lettori di giornali e libri dedicati (la sezione “indignazione” delle librerie, tra “cucina” e “viaggi”), con persino gruppi editoriali dedicati.
E l’indignazione non è più il risultato di un fatto che la genera, ma la chiave di lettura preventiva e pregiudiziale di ogni cosa: capace di generare non una ricerca di soluzione dei problemi, ma una dipendenza da indignazione (l’indignazione rende vivi, fa sentire migliori, ci dà un senso e ci assolve, fa esistere) bisognosa di rinnovarsi ogni giorno.

Questi sono il rancore e il risentimento, o commentatori di oggi e analisti preoccupati: quello che abbiamo coltivato e prodotto, e che si è mangiato cannibale mezzo paese, le sue opportunità, le sue qualità, e si sta mangiando – per una qualche giustizia purtroppo improduttiva – anche la politica e i media. L’altro mezzo paese, meno incline all’indignazione, tende alla rassegnazione. Il risultato non cambia, ma si riesce a godersi i tramonti.

p.s. la sera successiva a questo post ho letto il libro nuovo di Zerocalcare, e a un certo punto viene introdotto questo mostro familiare.

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