“Avevo questo libro universitario, un libro di testo di biologia: “Come si muovono gli animali”. Ecco com’è andata”. John Parish, stimato musicista rock inglese (definizione riduttiva e vaga, che cercheremo di dettagliare), spiega il titolo del suo nuovo disco, “How animals move”. “Mi piace perchè è semplice, non presuntuoso, ed è aperto a molte differenti interpretazioni”. In effetti i giornali del suo paese si sono sbizzarriti: qualcuno ha parlato di “lente processioni di animali in un triste circo, sorvegliati o forse rinchiusi”, altri di “musica per documentari con uccelli che saltellano e tartarughe che si trascinano” o “musica appropriata per la scena finale in cui il cowboy viene seppellito nella sua tomba nel deserto del Nevada”. Per lui, tutti i punti di vista sono interessanti. È l’uomo dei punti di vista, in musica. Il suo lavoro di arrangiatore, produttore, musicista ha costruito i dischi di molte band in prima linea nelle modernizzazioni del rock di questi ultimi anni: gli Eels, i Giant Sand, gli Sparklehorse, i Goldfrapp e PJ Harvey, con la quale vanta un lungo e proficuo sodalizio. In quello che i giornalisti hanno chiamato post-rock – mettendoci dentro anche Radiohead, Mogwai, Mercury Rev e anche Sigur Ros (gli islandesi che fecero impazzire i critici di tutto il mondo due anni fa e di cui sta per uscire il nuovo cd) – John Parish ci sguazza da un pezzo. E racconta come si è sviluppato: “Indipendentemente l’uno dall’altro, diversi artisti hanno cominciato a sperimentare di più sulla musica strumentale. I primi furono una band americana assai poco nota, gli Slint, con il cd che si chiamava Spiderman. Sono loro quelli che di fatto hanno creato l’espressione post-rock, dodici anni fa”.
Un chiaro suono rock associato a una forte inclinazione alla musica strumentale, priva di scrupoli di mercato e libera di esprimersi in brani assai lunghi, che avrebbero terrorizzato qualsiasi discografico dell’establishment; il post-rock è nato tutto nel coraggio e nella sperimentazione delle piccole etichette. “Prima la gente non capiva un disco rock senza una voce, senza un’immagine umana da associare alle canzoni e al disco. “Così sembra una colonna sonora”, dicevano”. Ed è quello che vien fatto di dire ancora adesso, ascoltando “How animals move”, uscito in tutto il mondo in questi giorni. I diversi brani – in gran parte strumentali, avrete capito – hanno suoni evocativi e discontinui, come a sottolineare diverse parti di una vicenda. Forse di diverse vicende. “Il materiale proviene dal mio lavoro degli ultimi quattro anni. Un po’ alla volta, lavorando con gli altri, ho accumulato molta musica che poteva costituire un buon album. Non era un progetto, si è realizzato da sé un po’ alla volta. Di solito tendo a fare “la prossima cosa interessante”, e non prevedo quello che potrà essere”. L’Indipendent ha paragonato Parish a grandi elaboratori della musica rock sperimentale come Brian Eno e Daniel Lanois: “senza la sua attenzione all’ambiente e aggli arrangiamenti, le carriere di PJ Harvey, Goldfrapp e Sparklehorse, per dirne solo alcuni, sarebbero state assai meno appassionanti”. Secondo Parish, lui e questi suoi colleghi hanno la fortuna di poter lavorare con le mani libere: hanno grossi successi di critica e piccoli di pubblico (poi capita che un pezzo dei Goldfrapp finisca in uno spot e allora arriva il botto). “per queste band è più facile: vendere molti dischi è bello, certo, ma poi devi fare delle scelte legate all’industria, MTV. Eccetera. Io non ho grandi desideri di diventare una celebrità e ci ho messo molto a decidere di pubblicare un disco mio. Mi diverto a lavorare con gli altri”. E anche questa volta, ha tirato dentro PJ Harvey, che canta nella canzone che chiude il disco, e Adrian Utley dei Portishead.
Parish ha 43 anni e la leggenda vuole che abbia cominciato a suonare a 14, “folgorato” (questo lo scrivono gli uffici stampa) da un concerto di David Bowie a Bristol. Niente di più letterario che arrivare al suo progetto più importante in concomitanza di un altro incontro simbolico: alla premiazione del festival cinematografico di Bonn dove la sua colonna sonora del film belga “Rosie” stava ricevendo il trofeo maggiore, lui si è trovato seduto accanto a Ennio Morricone, un mito della musica strumentale. “Ero piuttosto impressionato dal trovarmi lì. Solo che dopo essersi detti reciprocamente “hai scritto proprio una bella colonna sonora”, non abbiamo trovato altro di cui parlare”. Gente poco incline all’uso delle voci.