Sarà capitato anche a voi, di avere una musica in testa. Il problema sono le parole. Con le parole, i casi sono tre: le si sanno, non le si sanno e si inventa, non le si sanno ma si pensa di saperle. Questo terzo caso è prodigo negli anni di equivoci che si sedimentano e ci diventano più cari della verità: le parole delle canzoni che abbiamo capito male. Mi spiego con il mio esempio preferito, quello di una mia amica che canticchiava “La luce dell’Est” di Battisti così: “poi seduti accanto in un’osteria, bevendo un brodo caldo che bollìa”. Ora, se non ricordate bene le parole, vi sembrerà che i versi abbiano abbastanza senso, malgrado un aulicismo un po’ strano da parte del Battisti versione Mogol – non ancora imbizzarrito dal genio di Pasquale Panella – ovvero quell “bollìa” per “bolliva”. Una roba un po’ dantesca. Solo che la mia amica – che ha fatto studi scientifici – ha sempre scambiato il “che follia” di Mogol (che cadute ne aveva, diciamoselo) con un assai più elevato e congruo “che bollìa”. Ricordiamoci che si parla di brodo caldo. Bene, proseguo con altri esempi: io da ragazzo non avevo idea che esistesse una cosa che si chiama “crinoline” (e anche ora, non mi è chiarissimo di che si tratti), e pensavo che “La mia banda suona il rock” dicesse: “ci vedrete in prima linea come brutte ballerine”. Un altro equivoco infantile – assai più dotto e tutto su una questione di significati – derivava dal tentativo dei miei genitori di farmi ascoltare il Rigoletto a un’età inadeguata: così “la donna è mobile qual piuma al vento, muta d’accento e di pensiero”veniva da me interpretato come se quel “muta” fosse un aggettivo e non un verbo. Una donna priva d’accento, che parlava in buon italiano, insomma.
Più sul versante consumistico adolescenziale sta la convinzione che Baglioni aprisse “Questo piccolo grande amore” così: “Quella tua maglietta Fila”(giuro, allora andavano di gran moda). Ma è ancora su Battisti che si sono giocati i fraintendimenti di una generazione: parlando di questo articolo, mio fratello mi ha appena spiegato che “I giardini di marzo” dice “in fondo all’anima cieli immensi” e non “in fondo all’anima c’è l’immensi”, come io ritenevo da sempre con una licenza linguistica un po’ livornese. Per non parlare di “Nessun dolore”, in cui solo una esigua minoranza seppe riconoscere le parole “e mi inaridivi” (“terminare vivi”, per me, ma ho saputo anche di “pettinare divi”). Poi, siccome questo è un giornale femminile ed elegante, non vi dico cosa succedeva a quelli ignoranti di calcio quando Lucio Dalla cantava “poi Milan e Benfica, Milano che fatica”.