Di cosa parliamo quando parliamo di rispetto per le sentenze

Scrissi questa cosa di ovvietà alberoniana nel 1999, sul Foglio. Torna buona ogni settimana.

“C’è un equivoco, o una malafede, oppure ci sono equivoci che danno manforte alle malafedi o malafedi che si approfittano degli equivoci, nelle interminabili discussioni sul rispetto delle sentenze della magistratura. Che si tratti degli uni o degli altri, non è difficile individuarne la natura. Vediamo di cosa parliamo quando parliamo di rispetto per le sentenze.

Nessuno pensa di certo che rispetto, più in generale, sia sinonimo di silenzio, né che il silenzio sia un sintomo di rispetto (chi disattende i pronunciamenti lo fa, in genere, zitto zitto). Il primo rispetto che viene insegnato, quello per i genitori, non dovrebbe avere più niente a che fare con la tacita disciplina da cui nascevano attriti, distanze e incomprensioni. È un rispetto fatto di obbedienza all’autorità e all’esperienza, che contempla la richiesta di spiegazioni, l’esposizione del punto di vista dei figli, e anche l’eventualità che il genitore dubiti di avere esagerato o cerchi di capire meglio la generazione con cui ha a che fare.

La nostra società ha delle regole. La nostra repubblica è fondata su delle leggi. Il rispetto per quelle leggi la fa funzionare. Qualcuno può immaginare che quel rispetto si individui semplicemente nel cieco attenersi alle regole, qualsiasi esse siano? La messa in discussione sovente di alcune di queste leggi è una mancanza di rispetto della Repubblica? La critica, giusta o sbagliata che sia, alla legge sul finanziamento dei partiti, alla legge sulla parità scolastica, alla legge contro le droghe leggere, è una mancanza di rispetto della democrazia? Lo è la messa in discussione di alcuni articoli della stessa Costituzione? O non sono esattamente i dubbi e la discussione che fanno funzionare tutto questo, dal parlamento alla società stessa?

Veniamo alle decisioni della magistratura. Ci sono stati in questi anni alcuni rumorosi casi di critica alle decisioni di corti diverse. Da molte parti si attaccò la sentenza che mandò assolto Erik Priebke. Adesso da altre parti si contesta la sentenza che lo tiene detenuto. Poche settimane fa un’indiscutibile sollevazione che ha coinvolto le parti politiche più distanti ha rumorosamente attaccato la sentenza della corte di Cassazione sullo stupro di una ragazza in jeans. Mesi prima era stato aspramente contestato, e anche da appartenenti alla stessa magistratura che sovente invocano il rispetto delle sentenze, il giudizio della Cassazione sull’articolo 513. La settimana scorsa con appassionata spontaneità chiunque avesse voce per farlo ha espresso il suo rammarico per la sentenza dei giudici americani sulla strage del Cermis.

Si è trattato in tutti questi casi di mancanza di rispetto per le sentenze? O in alcuni di essi? (ma allora quando si può discutere e quando no?)

In realtà, come sa chiunque accantoni gli interessi di parte in questa riflessione, le sentenze si rispettano in un solo modo: obbedendovi. È la distanza tra le parole e i fatti, in fondo, a sfuggire a chi confonde rispetto e critica. Tutte le sentenze che abbiamo citato hanno avuto obbedienza e sarebbero da sanzionare solo coloro che a quest’obbedienza mancassero: Priebke che si sottraesse alla giustizia, i giudici di merito che non seguissero le indicazioni della corte Suprema, chi pretendesse giustizia sommaria nei confronti dei responsabili del Cermis.

Di continuo invece, e anche da parti da cui ci si aspetta coerenza ed equilibrio, si attacca la discussione, l’eventualità di una legale correzione degli errori, il dubbio. Si attacca il dubbio. (Non dimentichiamo che il caso in cui è istituzionalmente imposta l’obbedienza senza discussione è quello militare: ci sarà un motivo se si chiamano sentenze, e non ordini).

C’è chi pretende che si taccia sempre e che solo gli imputati e le parti abbiano diritto di sostenere le proprie ragioni e solo in aula (e quando non ne hanno la forza, la lingua, la competenza, chi li garantisce?), chi sostiene che dubitare che una sentenza sia giusta e battersi perché venga emendata sia un’insopportabile mancanza di rispetto dello stato di Diritto. Queste persone sono costrette, se in buonafede, a escludere che una decisione possa essere sbagliata oppure a ritenere che lo sbaglio giudiziario vada accettato, e amen. Queste persone immaginino di essere condannate per un reato che non hanno commesso o che questo avvenga a una persona a loro cara. Può succedere. E quel giorno, per coerenza, non apriranno bocca, andranno a casa e spereranno solo che non capiti una seconda volta.”

Il Foglio

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