“Ehi, lentiggini”

È un elemento centrale della letteratura d’azione: il personaggio che si mette nei guai. Quello che rallenta le cose, e che mette negli impicci anche gli altri. Quello che ti spazientisce, che vorresti prenderlo a schiaffi, e che ti viene da pensare “ma cosa ce lo tengono a fare, ‘sto disgraziato” (nella maggior parte dei casi “’sta disgraziata”). E invece ce lo tengono apposta, disgraziati loro. È un elemento centrale, permette alla storia di trovare nuove svolte e non chiudersi dopo un capitolo, una puntata, una mezz’ora. Fornisce nuove occasioni agli altri protagonisti. E mette in tensione lettori e spettatori.

Parlando di serie televisive, il modello perfetto è Kim, la figlia di Jack Bauer in “24”. La serie con Kiefer Sutherland, per i non fans: una delle cose migliori fatte in tv in questi anni, tutta ritmo, azione e colpi di scena. E Kim Bauer è centrale: si mette in ogni casino possibile, animata da buone intenzioni e da giovanile precipitosità. E poi a suo padre tocca occuparsene, rallentando la sua missione di salvare il mondo da montagne di terroristi e minacce nucleari.

Quel personaggio lì, insomma, è indispensabile. Ma non per questo meno insopportabile. Prendete “Lost”, di cui sta andando in onda la seconda serie su Fox (negli Stati Uniti è appena partita la terza): tra le sue molte idee vincenti (che rendono tollerabile un’ubriachezza dell’intreccio che spesso sembra navigare a vista: di metà dei misteri aperti si perde poi ogni traccia) c’è il gran numero di personaggi con una propria storia e identità forte, sull’isola dove da settimane sono abbandonati i sopravvissuti di un incidente aereo. Tra questi, di quelli che combinano casini o rallentano tutto ce n’è a bizzeffe, sfinenti. I coreani, per esempio: non parlatemi dei coreani. O la bella Kate, gattamortissima immortalata spesso in riprese vagamente sexy, e che serve solo a tappezzare le camere dei teenagers a casa, e complicare la vita agli altri. E Shannon? Ogni volta che appare Shannon, un brivido corre lungo la schiena dei fans.

Poi ci sono i personaggi maggiori, un nocciolo duro di leaders più protagonisti degli altri. Uno più fulminato dell’altro. Jack è così bravo e buono che non lo vorrebbe neanche Marzullo: un sex symbol così scontato e mollacchione che alcune comunità di appassionati su internet lo danno per gay. Locke ha deliranti ebbrezze mistiche e la pazienza di un santo: via. Sayid sarebbe un torturatore di professione, ma è il più pio di tutti: ogni volta che scanna qualcuno, gli dispiace molto. Michael è semplicemente un po’ scemo e Charlie è completamente scemo, come può esserlo solo un inglese visto dagli americani.

Rimane solo lui.

Il più figo di tutti, quello con il sarcasmo assassino, il fascino idel bandito, e un cuore da qualche parte, ma non si ricorda mai dove.

Sawyer.

Sawyer fa delle cattiverie che non ci puoi credere. Soprattutto perché la storia fa di tutto per convincerci che sia bravo e altruista, sotto sotto. Ha apparizioni schizofreniche: un giorno salva la vita a uno sconosciuto e il giorno dopo si ruba le medicine di tutti. Di Sawyer davvero si può dire: non è cattivo, è che lo dipingono così. Ma è esattamente questo quello che lo rende più amabile e tosto di tutto il resto del branco di compagnucci.

Con Desperate Housewives è diverso. Non è una serie d’azione, quindi il personaggio che si mette nei guai è meno necessario: lo stesso, Susan ha momenti fantozziani che hanno il medesimo scopo nei confronti della trama. Ma quanto a cattiverie e scaltrezze egoiste, tra le altre c’è una gara. In finale, tra Bree e Gabrielle, vince la seconda. In Bree anche la scorrettezza è costruita: Gabrielle fa i suoi interessi per necessità, si suda sinceramente ogni imbroglio volto a mantenere lussi e capricci di cui non può fare a meno. Come con Sawyer, il maestro nell’arte di arrangiarsi che è in ogni spettatore si riconosce in Gabrielle. Due personaggi che hanno dovuto procurarsi quello che hanno inventandosi vite truffaldine, senza le fortune ereditarie o i tormenti spiccioli degli altri. Si parla di cavarsela, di vita vera, di mariti in galera, padri uxoricidi e suicidi e famiglie spappolate. Altro che torte di mele e dolori di cuore.

Il fascino di Sawyer e Gabrielle sta dentro un’onda lunga impressionante di successo delle serie televisive americane, anche in Italia. È una storia che viene da lontano, ma che aveva avuto una resurrezione qualche anno fa, col periodo di E.R., West Wing, i Sopranos, C.S.I., Six Feet Under. Poi c’è stato il boom planetario della coppia Desperate-Lost (preceduto da quello di 24, che alla sua quinta annata ha fatto incetta di Emmy awards, quest’anno), di cui negli Stati Uniti è partita la terza stagione, per entrambi. In Italia erano stati preceduti dalle eco del culto americano, e la costruzione del seguito si era frammentata per via delle successive programmazioni su Fox prima e su RaiDue poi – nonché delle anteprime americane disponibili su internet – e di una continua incertezza sulle date della programmazione (RaiDue non ha ancora chiarito quando partirà la seconda stagione di DH, mentre FOX prevede la terza a primavera). Ma intanto, nello scorso aprile, un episodio di Lost è stato visto da 5 milioni e mezzo di italiani, secondo nella storia del genere solo a una puntata di E.R. del 1997. E nei presenti tempi tempestosi e inflazionati per i reality show domestici, le serie americane mostrano anche sui palinsesti italiani una affidabile solidità. Se le cose si mettono male, meglio affidarsi a dei professionisti: Sawyer e Gabrielle.

Vanity Fair

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