Weeklypedia (dove si parla di Toys in the attic, Clipper, Pulpito, Jules Feiffer, Tucson, Elitismo, Koye Hill)

Toys in the Attic è il titolo di diversi lavori artistici. Il suo significato è simile a quello di “Bats in the belfry”.

Scegliendo le canzoni per il programma che facciamo su RadioDue, con il mio socio Matteo Bordone ci siamo trovati a chiederci cosa voglia dire quando in una canzone di “The wall” dei Pink Floyd lui dice “Toys in the attic, I am crazy”. Giocattoli in soffitta? Wikipedia cita alcune opere intitolate all’espressione, ma sul significato dice solo che è simile a “bats in the belfry”: pipistrelli nel campanile. E siamo daccapo. Ma pipistrelli nel campanile, sempre su Wikipedia, rimanda alla voce “Pazzia”. E allora mi sono ricordato che si diceva anche al paese mio, da piccoli, per sfottere qualcuno e dargli del matto: “c’hai i bimbetti che fanno a guancialate in testa”. Giocattoli in soffitta, pipistrelli nel campanile.

Update: bastava guardare Wikipedia italiana. Toys in the Attic (letteralmente “giocattoli in soffitta”) è un’espressione idiomatica della lingua inglese per riferirsi alla pazzia”

I Clipper furono veloci navi a vela a tre o più alberi adibite al trasporto delle merci sulle rotte oceaniche che furono utilizzate sul finire del XIX secolo. Rimane incerta l’etimologia del termine: l’origine del termine viene ricondotta sia al verbo clip inteso come tagliare (i tempi di navigazione), o come fendere (le onde) come anche a clip inteso come velocità o frullio di ali.
I Clipper furono costruiti nei cantieri inglesi, olandesi, francesi e americani. I primi vascelli di questo tipo ad essere varati sono stati i piccoli Clipper di Baltimora che vennero realizzati negli USA durante la guerra del 1812.
Proprio per incrementare la velocità questi vascelli disponevano di una superficie velica superiore a quella delle navi a loro equivalenti che le rendeva difficili da manovrare. Tutta la nave era progettata per raggiungere la massima velocità possibile tanto da sacrificare anche la capacità di carico della nave stessa. Ma le velocità raggiunte ripagavano questo sacrificio. Infatti un Clipper poteva raggiungere facilmente una velocità di 9 nodi (16 km/h), con in qualche caso punte di 20 nodi (37 km/h), quando la velocità massima delle altre navi era di 5 nodi (9 km/h) scarsi.
L’epoca d’oro dei Clipper durò dal 1840 al 1870 circa. In seguito le navi a vapore divennero, grazie all’apertura del Canale di Suez che le navi a vela non potevano percorrere, molto competitive. Le navi a vela invece dovevano ancora seguire la rotta che passava per il Capo di Buona Speranza, circumnavigando l’Africa.

Il Cutty Sark era un clipper e si dice abbia preso il nome dalla camiciola indossata da un personaggio in un poema scozzese.  Fu varato nel 1869 per il commercio del tè con la Cina, alla vigilia dell’apertura di Suez e del passaggio di moda dei clipper. Navigò mezzo secolo, poi divenne nave scuola, e infine nave museo, a Greenwich nei pressi di Londra. L’anno scorso, durante un periodo di restauri, fu in parte distrutto da uno spettacolare incendio di cui si sono indagate le misteriose cause per un anno. Questa settimana la polizia ha comunicato che con tutta probabilità il fuoco si sviluppò per il surriscaldamento elettrico di un’”aspirapolvere industriale” lasciata accesa per due giorni. Viene da pensare agli operai che si allontanano, il venerdì pomeriggio, e uno di loro rimugina, sulla metropolitana: “ma ho spento l’aspirapolvere?”. È in corso una intensa raccolta di fondi per il restauro: le vele erano per fortuna state quasi del tutto rimosse al momento dell’incendio.

Il pulpito (dal latino pulpitum che significa impalcatura, piattaforma) o pèrgamo, indica una piattaforma sopraelevata usata per scopi civili e religiosi. Nell’antica Roma il pulpito indicava il luogo elevato dal quale il magistrato romano amministrava la giustizia, un palco dal quale parlavano gli oratori e, come fa Vitruvio, il palcoscenico su cui recitavano gli attori. Con l’avvento del cristianesimo e la trasformazione della società in epoca medievale si identifica il pulpito con il palco elevato e provvisto di parapetto, in legno o in marmo, collocato nella navata centrale della chiesa da cui parla il predicatore. Attualmente tale struttura è raramente utilizzata, anche grazie ai moderni sistemi di amplificazione che consentono al sacerdote di essere udito chiaramente anche dall’altare.

Insomma, in tempi in cui tutti vengono accusati di predicare da qualche pulpito (e anche “non accetto lezioni da…” va molto forte), in realtà dal pulpito vero non predica quasi nessuno. Si predica dall’altare. “Da che altare viene la predica” non suona in effetti altrettanto bene, per quel cozzarsi di vocali. E comunque è sempre stata un’espressione stupida, che pretendeva di annullare il valore e l’importanza di una buona predica solo in nome del luogo da cui venisse pronunciata o di chi la pronunciasse. Invece le cose sono vere o false indipendentemente da chi le dice. Indipendentemente dal pulpito.

Jules Feiffer (New York, 26 gennaio 1929) è uno scrittore, autore di fumetti, cartoonist e vignettista statunitense. Nel 1986 ha vinto il Premio Pulitzer. Feiffer è soprattutto noto per le sue strisce di argomento politico e satirico, poetico e psicologico. Queste in genere occupano un’intera tavola e sono composte da sei/otto vignette.
Uno dei personaggi ricorrenti è la donna che danza (“Questa è la mia danza della primavera per festeggiare …”). Altri personaggi sono Bernard Mergendeiler, nevrotico cronico, e Munro, un bambino di quattro anni erroneamente arruolato nell’esercito, Passionella e altri personaggi minori. Tra le vignette di argomento politico, sono particolarmente note quelle relative a Richard Nixon e allo scandalo Watergate.

Negli Stati Uniti hanno ripubblicato in volume dieci anni di strisce di Feiffer per il Village Voice, disegnate tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il libro è molto bello: di formato “orizzontale” (più largo che alto) come molte raccolte uscite in questi anni (l’integrale dei Peanuts, quella di Dick Tracy, quella delle strisce di Spiderman: ed è annunciata da tempo quella di Pogo), e con una stupenda copertina telata. Si chiama “Explainers”: in dieci anni si vede quella evoluzione di tratto che diverrà poi uno stile di rara eleganza nelle strisce politiche. E ci sono i suoi pochi personaggi frequenti, come la donna che danza, a cui tanto devono le tavole di Pericoli sulle pagine di cultura di Repubblica, e l’educazione alle cose americane di chi leggeva Linus negli anni Settanta.

Tucson (pronuncia: Tū’sän) è una città statunitense, già capitale dello stato dell’Arizona, e oggi capoluogo della contea di Pima. Nel 2006 contava 518.956 abitanti, contando anche l’intera area metropolitana la sua conurbazione raggiunge quasi il milione di abitanti.

Che poi Wikipedia serve anche a questo: a fare la sovversiva scoperta che “tùcson” – quella di Tex e anche di Paperone, delle rapine a “tùcson”, eccetera – si pronuncia “Tùson” (accentuare l’accento americano a piacere). Come se la ci non ci fosse, e con la esse dolce, come in “fuso”.

L’elitismo è una teoria politica basata sul principio minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano ad una minoranza. Si fonda sul concetto di élite, dal latino eligere, cioè scegliere (quindi scelta dei migliori). Termini interscambiabili con quello di élite sono aristocrazia, classe politica, oligarchia.

L’elitismo è l’idea o la pratica per cui gli individui che sono considerati membri di un’élite – un gruppo selezionato di persone con capacità personali superiori, dotate di intelletto, ricchezza, competenza o esperienza, o altri attributi particolari – sono quelli le cui opinioni su una materia devono essere prese in maggior considerazione o aver maggior peso; i cui giudizi o azioni sono più probabilmente costruttive per la società; o le cui straordinarie abilità o saggezze li rende più adatti al governo. Alternativamente, il termine elitismo può essere usato per descrivere una situazione nella quale il potere è concentrato nelle mani di un’élite.
Possono avere significato contrario di “elitismo” i termini “antielitismo”, “populismo” e la teoria politica del “pluralismo”.

La crescita di una discussione libera sull’antielitismo – uno dei tratti sociopolitici più importanti dei nostri tempi – è complicata da diversi fattori, anche linguistici. Quelle qui sopra, per esempio, sono le voci di Wikipedia italiana e inglese dedicate al termine elitismo. L’accezione negativa del termine, come si vede, prevale nella voce italiana (alternativa a quella di “elitarismo”). La difficoltà a parlare dell’antielitismo, che molti commentatori americani stanno coraggiosamente cercando di superare, nasce dal successo dell’antielitismo stesso. Ovvero di quell’atteggiamento culturale e politico vincente che suggerisce che le persone “normali”, quelle “come noi”, quelle “che ci somigliano”, siano più adatte a ruoli di potere e responsabilità che non quelle competenti, preparate o esperte sulle questioni che riguardano quei ruoli. In America la candidatura di Sarah Palin ha fatto saltare il tappo della sopportazione di questo andamento, e molti articoli “in difesa dell’elitismo” sono già usciti, sfidando il discredito e l’impopolarità del termine. Le battute della Palin sull’essere preparata sulla politica estera perché da casa sua vede la Russia, hanno fatto da miccia. In Italia il coraggio di sfidare l’antielitismo ce l’hanno in pochissimi: ha scritto qualcosa Massimo Gramellini la settimana scorsa. Ma gli esempi del suo essersi profondamente radicato anche qui non mancano: da Di Pietro che sa guidare il trattore a tutto il repertorio domestico-rurale dei leader della Lega, e ancora (fino a Fassino che va da Maria De Filippi, per cercare di sembrare “una persona qualsiasi”). Il problema è che l’elitismo non è di per sé buono o cattivo: dipende dai criteri con cui sono scelte le élites. E in Italia queste scelte non hanno un buon curriculum: si prevedono tempi duri per chi vorrà far tornare quelli molto bravi e capaci a occuparsi delle cose che contano.

Koyie Dolan Hill (pronuncia: ‘Koy’) (9 marzo 1979, Tulsa, Oklahoma) è uno dei ricevitori della squadra di baseball dei Chicago Cubs.

I Chicago Cubs non vincono le finali del baseball da novantanove anni. Condizione che è divenuta l’identità della squadra, una specie di maledizione, molto più di quanto fu da noi a suo tempo l’identità sfigata dell’Inter, e ormai senza concorrenti dopo le recenti vittorie dei Boston Red Sox, anche loro protagonisti di un lunghissimo digiuno.
Quest’anno i Cubs hanno dominato il campionato e sono tra le otto squadre arrivate ai playoffs, anche se adesso stanno rischiando*. Nelle ultime partite della stagione regolare, hanno richiamato il ricevitore Koyie Hill dopo una lunga assenza: un anno fa si era segato via quattro dita con una sega elettrica mentre faceva dei lavori di falegnameria in casa. I tifosi si sono ricordati che un secolo fa,quando  i Cubs vinsero le finali, il lanciatore era Mordecai Brown, che aveva solo tre dita.

Altre voci che ho cercato questa settimana

Hoffenheim
Tunde Adebimpe
Margherita Granbassi
Conoscenza carnale
Thabo Mbeki
Segway Polo
Segnale wow
Morte di un soldato repubblicano
Mentalismo
Camillo Berneri
Irony mark
Eddie Gilbert
Monte Rushmore
Linda Ronstadt
Sonseed

 

*poche ore prima che questo articolo arrivasse nelle edicole, i Cubs venivano eliminati dai Dodgers. Una maledizione è una maledizione.

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