Quelli che c’erano ricorderanno che uno dei tormentoni condivisi ai primi tempi dei blog italiani fu l’analisi della prosa di Paolo Zaccagnini, leggenda della critica musicale italiana. La possibilità di leggere online i suoi articoli sul Messaggero svelò anche a chi non lo conosceva le sue illimitate capacità di allungamento all’infinito dei periodi e di moltiplicazione esponenziale delle virgole.
Oggi Zaccagnini comincia a collaborare con l’Unità, e l’attacco del suo pezzo è questo:
Ormai accade ogni volta che si annuncia, prima furtivamente, ufficiosamente e timidamente quindi ufficialmente e fragorosamente, l’arrivo di un nuovo album, e successivo tour, di Bruce Springsteen. Vado indietro alla prima volta che lo ascoltai, a casa del mio amico Roberto D’Agostino, ai tempi di “Born in the USA”, era il 1975, e al primo concerto dal vivo, dieci anni dopo, a sessanta miglia da Dublino, nella vallata davanti allo storico Slane Castle, seduto accanto a Eric Clapton, e l’allora bellissima consorte, ex moglie di Harrison, Patty Boyd, per la quale scrisse, tra l’altro, Wonderful tonight. No, il pensiero per essere più precisi va alle prime volte. Casuale e ufficiosa a Parigi, non tanto casuale ma ufficiale poi, a NewYork. Come si dice, le prime volte non si scordano mai. Difficile non amare, pazzamente e al primissimo ascolto, questo tozzo e all’apparenza rozzo ragazzo del New Jersey, introverso, simpatico, timido giovanotto dal sorriso pronto ma pieno di malinconia e segreti pensieri, le sue storie che sapevano essere allegre e struggenti ma che sempre centravano il bersaglio, i suoi amici-compagni di lavoro e viaggio, la E-Street Band, la più gioiosa, micidiale, robusta, rocciosa, straordinaria fucina di rock’nd’roll del mondo.
p.s. quelli attenti ai contenuti segnalano anche che “Born in the USA” è del 1984.
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