Nelle sale americane – meno pigre delle nostre nei confronti dei buoni documentari – sta circolando “Still Bill”, un documentario sulla vita di Bill Withers. Lui ha settantadue anni e racconta con grande efficacia e simpatia il suo passaggio attarverso lo star system. Nato in una famiglia nera e numerosa del West Virgina, fece nove anni in marina dove cominciò ad appassionarsi alla musica e a scrivere canzoni. Fece il botto nel 1971 con “Ain’t no sunshine when she’s gone”, una canzone dalla struttura decisamente anomala che ripete pochi versi e dura appena due minuti. Divenne famosissimo, sposò un’attrice di sitcom e divorziò dopo un anno, si risposò, ebbe altri successi con “Lean on me”, “Lovely day” e “Just the two of us”, ma rimase molto diffidente e polemico nei confronti del music business e dei suoi cliché. Nel 1985 smise di fare dischi. In “Still Bill” (era anche il titolo del suo secondo disco) a un certo punto risponde a così a chi pretende di spiegargli la musica nera: “Mi stai parlando del blues? Sono io, il dannato blues! Guardami. Cazzo, vengo dal West Virginia. Sono il primo della mia famiglia che non lavora in miniera, mia madre lustrava i pavimenti in ginocchio e tu parli a me del fottuto blues perché hai letto qualche libro sul blues? Vaffanculo”.
When I wake up in the morning love
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