Traditore di casta

Questa intervista con Lorenzo Sassoli De Bianchi è pubblicata sul nuovo numero di Vanity Fair

A leggere le biografie di Lorenzo Sassoli De Bianchi un sentimento simile all’invidia percorre persino le anime più nobili. A 57 anni ha vissuto abbastanza vite da meritare almeno una mezza dozzina di interviste: nobile famiglia bolognese di produttori della Vecchia Romagna, studi di medicina con perfezionamento ed eccellenza nelle patologie del sonno, creazione di una società di alimentazione e salute in anticipo sui tempi e di straordinario successo, passione longeva per l’arte e la fotografia fino alla direzione del museo Mambo di Bologna, presidenza dei pubblicitari italiani, e per ultima effimera candidatura a sindaco di Bologna, prima dell’estate.
E in tutto questo, due crucci che cerca di dominare, uno all’inizio e uno alla fine della sua biografia fino a oggi. Cominciamo da quello all’inizio: tutti questi cognomi.
«Eravamo conti, se me lo chiede. Ma titoli nobiliari sono stati aboliti. Io mi definisco dottore, che è l’unico titolo che mi sono guadagnato. Anche perché il nome di famiglia è stato sempre più un limite che una cosa a cui dare un’importanza: genera strani pregiudizi».
Beh, non tanto strani: non negherà che radici di questo genere abbiano un peso nella definizione delle persone…
Nessuno è responsabile del proprio nome. Come diceva Picasso, tutti abbiamo dei padri ai quali somigliamo, ma quello che conta sono le differenze. Io con questa cosa ho sempre dovuto fare i conti.
Più col nome di famiglia, o con suo padre?
No, il rapporto con mio padre si è risolto presto. Io ho preso una mia strada totalmente diversa da quella della famiglia, studiando medicina e dando un dispiacere a mio padre. Ero il primo di sei fratelli, sono stato indipendente molto presto. Mentre il nome ha continuato a essere ingombrante: c’erano pazienti che invece che dottore mi chiamavano conte, a Bologna, cosa che mi dava discretamente fastidio.
Studi e professione a Bologna?
Sì, ma mi sono specializzato in neurologia e poi ho lavorato sul sonno: Bologna era il secondo centro al mondo per questi studi, il primo era Stanford e quindi sono stato molto anche negli Stati Uniti. Facevamo molta ricerca, prima che il campo fosse occupato dagli americani con mezzi molto superiori dei nostri.
E poi cos’è successo?
La famiglia, ancora. Con i problemi tipici delle aziende familiari di famiglie molto numerosi, e a un certo punto mi sono sentito la responsabilità di assumermi un ruolo. Mio padre era stato uno dei molti soci della Buton, l’azienda che produceva la Vecchia Romagna. Io sono nato a Parigi quando lui lavorava là. Erano dodici fratelli bolognesi, quaranta cugini, la Buton era una “public company” prima di esserlo. Nel 1985 mi sono sentito praticamente costretto a occuparmene, ero il primogenito, ma è stata un’esperienza durata solo quattro anni. Poi l’azienda è stata venduta.
Ne ha sofferto?
No. Era un’esperienza che si stava esaurendo. Si erano persi lo spirito imprenditoriale e la voglia di rischiare. I soci volevano soprattutto risultati e dividendi.
Si fa ancora la Vecchia Romagna?
Sì, è tornata a Bologna, oggi è della Montenegro.
Però dopo quattro anni non è tornato a fare il medico.
No, avevo tagliato i ponti, e in più avevo capito intanto che coniugare alimentazione e salute sarebbe diventato un tema prioritario e adattai la mia breve esperienza imprenditoriale a questo pensiero che veniva dalla mia vita precedente. E così è nata la Valsoia.
È com’è andata?
Abbastanza bene, La Valsoia oggi è una società quotata in borsa che si comporta bene anche in questa fase di crisi economica.
E come riesce a gestire un’impresa di questo rilievo e a fare le molte altre cose che fa?
Beh, mi prende molto tempo. Ma ho imparato a delegare, facendo tesoro dell’esperienza precedente. Facendo il medico poi ho imparato il metodo: diagnosi, prognosi, terapia.
E intanto il mercato di alimentazione e salute è esploso…
Non è ancora esploso, sa? Le dimensioni del mercato salutistico sono piccole. Un terzo degli italiani dichiara di essere a dieta ma l’alimentazione salutistica pesa tra l’uno e il due per cento del mercato alimentare. Vuol dire che tra gli atteggiamenti e i comportamenti c’è ancora molta distanza.
E gli atteggiamenti come sono, la nostra attenzione all’alimentazione come la valuta?
Scarsa. Stiamo parlando di nicchie. Nicchie urbane, molto scolarizzate.
E tutto questo parlare di salute e simili nella comunicazione alimentare? È una comunicazione ingannevole?
Non è ingannevole, è generica. Le promesse sono generiche, si parla di “benessere”. Quello che io ho sempre cercato di fare è essere molto preciso nella promessa salutistica della Valsoia: parlare del colesterolo, delle intolleranze alimentari, di problemi specifici. La maggiore mortalità oggi è quella per cause cardiovascolari, che nasce dall’accumulo di colesterolo. E le intolleranze stanno aumentando esponenzialmente. O sta aumentando la consapevolezza sulle intolleranze. E aumenta ulteriormente con l’immigrazione…
Come mai?
Noi stiamo importando persone che sono più intolleranti al latte, gli africani, gli asiatici. E c’è maggiore richiesta di prodotti alternativi e attivi come la soia. Noi abbiamo un forte marketing indotto e spontaneo da parte della classe medica.
La produzione dov’è?
In Valsesia, in provincia di Vercelli. Produciamo soprattutto il latte e il gelato. La soia viene da diverse parti del mondo, la caratteristica è che sia tutta non geneticamente modificata. Noi siamo contrarissimi ai cibi geneticamente modificati…
Per quale ragione?
Io vengo dalla neurologia e conosco molto bene le malattie come la cosiddetta mucca pazza, una patologia che è insorta dopo vent’anni di somministrazione ai bovini delle proteine animali. Allo stesso modo noi non possiamo sapere ancora dire quali saranno le conseguenze dell’uso degli OGM. Fra trent’anni ne riparliamo, ma noi oggi dobbiamo stare dalla parte del consumatore: e non solamente per ragioni economiche.
Già, veniamo alle ambizioni meno “imprenditoriali”, a cominciare dall’arte…
Quella è una vita parallela. Io mi sono appassionato da ragazzino a capire come vanno le cose, me stesso, il mondo, attraverso l’arte. Avevo qualche velleità, anche: scattavo fotografie, soprattutto. A sedici anni ho conosciuto fotografi importanti come Man Ray e Duchamp, e Bologna era vivace sotto questo aspetto. C’era un produttore di mobili, Dino Gavina, che era un grande amico di Man Ray e gli faceva disegnare i suoi mobili. Poi conobbi Ragghianti, grande critico, e mi laureai in storia dell’arte all’università che aveva creato a Firenze. Intanto frequentai anche un ambiente di poeti, entrando nella cooperativa che produceva la rivista Alfabeta.
E il Mambo?
Appunto, negli anni Novanta il sindaco Vitali mi chiese di occuparmi della Galleria d’Arte Moderna, come si chiamava allora. E così ho cominciato a occuparmene seriamente, e oggi dedico a questo quasi tutto il mio tempo libero. Quando viaggio all’estero, visto musei e supermercati.
E oggi come va il Mambo?
Il Mambo va molto bene – abbiamo avuto l’anno scorso 125 mila visitatori – ma siamo in difficoltà economiche. Le amministrazioni locali hanno subito i tagli, le fondazioni bancarie sono più prudenti, per il 2011 abbiamo fieno in cascina, ma le prospettive sono difficili.
E chi sono i visitatori?
Soprattutto appassionati di sperimentazione artistica, su cui noi lavoriamo molto. E ventimila sono bambini delle scuole: il Mambo fa molta didattica, molti laboratori. Il compito di educare è prioritario. Stiamo costruendo gli appassionati d’arte del futuro. “Questo lo sa fare anche mio figlio”, ora lo si dice molto meno.
Ok, e il tempo per fare il presidente dell’Unione Pubblicitari dove lo trova?
Me l’hanno chiesto: e sono più le cose che rifiuto che quelle che accetto. Ma questa mi interessava, perché quello della comunicazione è di nuovo un settore d’avanguardia. Dopo Gutenberg e Marconi, noi abbiamo la fortuna di vivere il terzo cambiamento radicale in questo campo.
E come lo affronta la pubblicità?
Con alcune idee: di metodo, muovendosi sui vari formati. Internet è fondamentale, ma da sola non basta. Gli stessi nativi digitali oggi hanno come mezzo principale di accesso ai contenuti e alle informazioni ancora la tv. E di sostanza, attraverso la narrazione, le storie: l’unica garanzia per raggiungere “l’immaginario comune” (i target non eistono più) dobbiamo raccontare delle storie.
Perché la pubblicità online non è ritenuta ancora efficace come quella sui messi tradizionali?
Sta crescendo molto, però. Io credo dipenda dal grande problema della misurazione e dell’individuazione degli utenti della pubblicità in rete. In tv e in radio abbiamo informazioni maggiori di quelle che al momento riusciamo a ottenere su internet…
In radio non tanto, i dati di quest’anno sono stati annullati per inaffidabilità…
Su questo noi come UPA facciamo da tempo una battaglia per avere rilevazioni con il meter, come per la tv. Ne stiamo studiando uno che stia nell’orologio. Però la Rai, che va forte la mattina presto, teme che la mattina gli utenti si tolgano l’orologio mentre sono in bagno.
Però il pubblico anziano della Rai porta l’orologio più dei giovani ascoltatori delle radio commerciali…
Infatti è una questione complicata. Ma il tema è importantissimo, anche su internet. Più precisi siamo, meglio può essere pagata la pubblicità. E poi c’è il tema più importante della banda larga…
Ampio dibattito, lei cosa ne pensa?
Che il mondo si sta organizzando e l’Italia no. Sottovalutare questo tema mi sembra molto pericoloso.
Perché l’Italia no, secondo lei?
Perché si teme che la banda larga allontani il pubblico dai mezzi tradizionali.
“Si teme” chi?
Chi dovrebbe investire sulla banda larga, il governo. Che ha paure ingiustificate. La banda larga aiuterà la tv in streaming e quindi il timore è ingiustificato anche per l’editore televisivo. E non accettabile. Noi la battaglia sulla banda larga la stiamo facendo. Ma ho sentito anche Franco Bernabé e Telecom piuttosto freddi, su questo temi.
Chiudiamo con l’altro cruccio, l’ultimo: com’è andata sul sindaco di Bologna?
Che io sono fuori dai giochi.
Come mai è uscito dai giochi?
Perché ho capito che mi avevano tirato dentro in un’idea che non era così condivisa dallo schieramento di centrosinistra a cui ho sempre fatto riferimento. Io sono in una strana situazione: il centrosinistra mi considera un corpo estraneo e il centrodestra mi considera un traditore di casta. La mia identità come candidato ha generato mal di pancia da una parte e dall’altra. Mi impegno in cose che non sono la politica, cerco di restare coerente, pago tasse anche alte e non me ne sono mai lamentato… La mia disponibilità d’animo a un atto di responsabilità c’era: ma lo spazio politico non c’era, e ne ho preso atto e mi sono fatto da parte. La politica poi, persone come me la fanno tutti i giorni. Ma nella politica dei partiti, c’è un anacronismo “incrostato”, oggi.
Però poi è successo Obama…
Quella è l’America. Ma forse nell’aria c’è un Obama italiano che ancora non si vede.

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