Non chiamarmi capo

Il confronto tra rivoluzionari e riformisti è vecchio come il cucco e a un certo punto, quando le rivoluzioni possibili non hanno più implicato ghigliottine e roghi di castelli, è diventato la parodia di se stesso. La scelta era diventata infatti su quanti compromessi, quanti passi indietro, quanti sacrifici si sia disposti a fare rispetto alle proprie ambizioni di cambiamento: rivoluzionario è diventato allora chi si disponga a questi sacrifici solo come extrema ratio e non come impostazione di partenza un-conto-sono-le-promesse-altro-è-la-realtà-della-politica. Chi dica “facciamo quel che dobbiamo fare”. Il vecchio alibi dell'”arte del compromesso” ha smontato centinaia di progetti a cui fino a un attimo prima sembrava dovessimo credere.

Ieri sulla Stampa Bill Emmott commentava quanto le iniziative di Cameron da Primo Ministro (il programma di tagli, ma io ci aggiungo anche il discusso progetto sulla Big Society) siano più rivoluzionarie anche di quelle di Tony Blair. Cameron si sta giocando molto e si sta prendendo dei rischi notevoli: però sta facendo quello che deve fare uno quando diventa capo, sia capo di un governo o di un partito o di un qualunque cosa, dopo aver annunciato grandi cambiamenti. Ovvero mettere in pratica quel che aveva annunciato, rischiando lo scontro e la sconfitta se non riesce. Ti abbiamo creduto, e tu ora non ci deludi.

Ognuno a questo punto può pescare dalla memoria la delusione che preferisce.

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