Alessandro Baricco sul libro di Andre Agassi, Open.
Tutto sommato, l’unica cosa del libro che mi è spiaciuta è il finale. L’eroe sisposa, vince e scopre se stesso. Lieto fine, ma non è questo che mi è spiaciuto. È che l’eroe scopre il senso della vita iniziando ad occuparsi degli altri, i suoi figli innanzitutto, ma anche gli altri veri: apre una scuola per bambini che non hanno la possibilità di studiare. Volontariato. Tutti felici. Sipario. È che io non ci credo. A me risulta che la ricerca del senso è una sorta di partita a scacchi, molto dura e solitaria, e che non la si vince alzandosi dalla scacchiera e andando di là a preparare il pranzo per tutti. È ovvio che occuparsi degli altri fa bene, ed è un gesto così dannatamente giusto, e anche inevitabile, necessario: ma non mi è mai venuto da pensare che potesse c’entrare davvero con il senso della vita. Temo che il senso della vita sia estorcere la felicità a se stessi, tutto il resto è una forma di lusso dell’animo, o di miseria, dipende dai casi.
Peraltro, è anche possibile che mi sbagli.
Ci lamentiamo tanto delle ingiustizie della vita, degli orrori quotidiani, della difficoltà di crescere in senso sia individuale che sociale… e poi quando troviamo uno che, dopo una vita di errori e brutture ce la fa, riesce a dare un senso a tutto… ci lasciamo andare a commenti tanto cinici e disillusi.
Devo dire che un po’ mi consola, questo commento di Baricco: d’un tratto capisco perché i suoi libri non mi hanno mai stregato.
Baricco forse ha ragione. Ma io non riesco ad immaginare la mia felicità in solitudine. Voglio che le persone intorno a me siano felici, così che possa esserlo anche io.
Trasmettere qualcosa ai propri figli, gioia che ancora non conosco, è egoistico e generoso al tempo stesso: le due cose non si elidono a vicenda.
La verità è che si può essere infelici anche facendo tonnellate di volontariato: perché non si riesce a guardarsi nello specchio, perché ci sentiamo abbandonati, perché abbiamo scelto l’infelicità (che, sì, si sceglie, spesso con abnegazione).
Io sono felice quando costruisco qualcosa: ma se questo rimane in me (e nessuno vede il mio creato), è meno reale. Per essere bello, il mio creato, deve essere presente agli, nella speranza che almeno a qualcuno piaccia.
Ma la lezione più alta e necessaria che ci è stata impartita è quella di conoscere noi stessi. Noi siamo il nostro tribunale, e solo noi ci possiamo assolvere o condannare.
Come lo stupido che anzichè guardare la luna guarda il dito… Volevo dire che a me piace molto come scrive alessandro baricco, prima ancora delle cose che scrive che peraltro condivido. Sarà che non lo leggevo da molto e quindi me ne ero quasi depurato ma leggere questo suo articolo mi è piaciuto. Molto.
Non so se lo stile della prosa possa essere un indicatore dello stile del pensiero, ma se così fosse non mi stupisco che Baricco faccia fatica a comprendere la linearità del percorso di Agassi. Evidentemente un percorso “dannatamente” troppo banale per essere letterariamente interessante! :-) (ci metto la faccina, che di solito evito, giusto per togliere un po’ di acidità al commento)
Anche a me di solito piace come scrive Baricco, ma l’uso di “c’entrare” è veramente troppo. Talmente troppo che è bastato il successivo “se stessi”, senza accento, a stendermi definitivamente.
Il contenuto, invece, mi pare molto giusto e coraggioso: la “morale del sacrificio” è molto più spesso un ostacolo, piuttosto che un mezzo per realizzarsi.
L’uso di “c’entrare” è corretto.
“Se stessi” preferisce l’accento (in quanto potrebbe essere confuso con l’incipit di un periodo ipotetico), ma non è obbligatorio.
Amen