Da Demetrio Paolin, sugli anni Settanta

Demetrio Paolin mi ha mandato questa risposta al commento che avevo scritto a un suo articolo sul racconto degli anni Settanta. Aggiungo poche righe in fondo.

Caro Luca
Voglio provare in qualche modo a rispondere con una serie di pensieri, spero i meno sparsi possibili, alle tue riflessioni in merito all’articolo uscito domenica sul supplemento del Corriere della Sera. Per farlo voglio partire da una tua frase che io trovo alla fine dell’intervento

Al tempo stesso, ho visto miei coetanei o più giovani di me appassionarsi giornalisticamente o letterariamente a quel periodo e provare a raccontarlo: ma in questo caso gravati da cliché e schematismi, oppure da innamoramenti e distanze enormi. Come se studiassero il medioevo, oppure le stagioni di Lost. Senza riuscire mai a capire come era, come era da dentro, se non collocando tutto in dinamiche letterarie prevedibili, a volte anche fondate ma nella maggior parte dei casi superficiali. Senza esserci stati, insomma: figli per forza di altre metriche

Quello che tu dici è vero, in larga parte, ovvero che quasi tutte le narrazioni degli anni di piombo hanno una struttura e mettono in fila una serie di luoghi comuni (di topoi) assolutamente simili. In un certo modo io ne avevo già discusso, in un saggio uscito qualche hanno fa per la casa editrice Il Maestrale dal titolo Una tragedia negata (e anche on line su vibrisselibri) proprio mettendo in risalto come la narrativa sugli anni di piombo viveva all’interno di una serie di cliches difficili da estirpare. L’elusione della vittima, la Storia del nostro paese risolta a semplice questione da salotto borghese etc etc… Quindi quando parli di dinamiche letterarie prevedibili mi trovi concorde. Esistono, però, delle eccezioni. Provo a farti un esempio secondo me lampante. Alcuni anni orsono è uscito per i tipi di Marsilio, un romanzo dal titolo Avene Selvatiche di Preiser, che è uno pseudonimo di un militante dell’estrema destra coinvolto in fatti di terrorismo. Il libro è stato anche molto elogiato da Claudio Magris. Non so se lo hai letto quel romanzo, ma a parte un funambolismo verbale a tratti riuscito e a tratti stucchevole, quello che mi è risultato evidente dalla lettura è che l’autoritratto del militante di destra era totalmente ‘interno’ a una vulgata, che faceva risultare il personaggio simile a un pezzo di cartone.
Prendi invece il romanzo di Garlini, la Legge dell’odio (Einaudi). La storia, se vogliamo semplificare e non tediare nessuno, è la stessa. La formazione e la vita di un giovane estremista di destra. Lo sguardo di Garlini, però, pur essendo esterno, e distante politicamente, ci restituisce una maggiore sfumatura, una maggiore penetrazione piscologica. Ne esce fuori un ritratto avulso da quei luoghi comuni che tu dici inficiare molte delle soluzioni narrative.
Una obiezione potrebbe essere che Preiser è un pessimo scrittore, mentre Garlini no. Questa è una ipotesi, ma mi pare che nel tuo intervento non si discuta tanto di qualità estetiche, che neppure a me interessano in questo contesto, quanto nel nitore di una visione, nella possibilità di consegnare una descrizione di quel tempo diversa e più complessa.
Perché il discorso secondo me non è tanto di trovare la verità, e poi quale? quella storica? quella filosofica? quella giudiziaria? quella politica?, ma chiedere alla letteratura di tornare a fare il suo mestiere raccontare storie, raccontare una visione, un orizzonte che mi arricchisca e che mi renda più ricco.
C’è una altra cosa che mi colpisce del tuo intervento, il titolo. Il secolo scorso, dici. Mi pare che questo indichi un diverso approccio tra il mio modo di leggere quegli anni e il tuo. Tu sembri suggerire una sorta categoria storica, mentre io credo di ragionare per categorie anagrafiche.
Mi viene in mente, e la butto lì così, forse altri meglio di me possono dire se questa mia suggestione ha un fondamento oppure è una boutade che mentre per te i ‘70 sono un periodo storico, per me sono il periodo della mia infanzia. Quindi per me capire i ’70 è un modo per comprendere il tempo in cui sono venuto al mondo. E’ forse per questo che sento una sorta di consonanza di sguardo con Giorgio Vasta, Alberto Galrini perché sento che la loro spinta ha qualcosa di simile alla mia, è qualcosa di biologico più che storico.
Ecco credo di essere stato fin troppo lungo, ma come immagini è un tema che molto mi preme.
Ciao
d.

Non credo ci sia una differenza tra la ricerca di verità di cui parlavo e il racconto “di una visione che mi renda più ricco”: sempre di capire le cose stiamo parlando. E non mi convince la tua conclusione: per me gli anni Settanta sono sia un periodo storico che gli anni della mia infanzia, ma credo anche per te. Anche perché se tu li vivessi solo come la seconda cosa, la difficoltà di avere una visione sarebbe ancora maggiore.
Ma soprattutto, e concludo, mi pare che dire che vuoi “comprendere il tempo in cui sei venuto al mondo” segnali una ricerca molto umile e prudente, che è tutt’altro dall’ambizione politica più ampia sul “chiudere i conti con” che tu stesso citavi.
Ciao, grazie. 

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