Un articolo sulla Lettura, di Demetrio Paolin, pone oggi la questione del racconto del terrorismo italiano e degli anni Settanta: la tesi è che lo spazio di analisi e racconto di quella storia sia stato occupato troppo dai suoi protagonisti e testimoni, e sottratto agli scrittori e studiosi più giovani, che in nuovi romanzi cercano di dedicarvicisi.
Allargando la visione dai semplici “annidipiombo”, il tema del racconto delle militanze politiche degli anni Settanta mi interessa e ci penso da molto, per ragioni biografiche e giornalistiche. Ho vissuto dentro quegli anni e vicino alle cose di cui si parla, da bambino e ragazzino: abbastanza da vederle e conoscerle molto, abbastanza presto perché non fossero mie. E le conclusioni a cui sono arrivato suoneranno insoddisfacenti – come è insoddisfacente ogni ricerca di soluzione facile alle cose complesse – e scontenteranno tutti. Io non credo che gli anni Settanta italiani possano essere storicizzati senza una grande superficialità (questo poi vale probabilmente per ogni storicizzazione, ma è un altro dibattito), da nessuno. Mi sono convinto, ascoltando e leggendo ininterrottamente per decenni racconti, analisi, documenti, processi, ricostruzioni, ricordi, che nessuno dei due soggetti evocati da Paolin sia in grado di raccontare (e probabilmente capire) una cosa che si avvicini abbastanza alla verità. Tra chi è stato dentro gli anni Settanta ci sono persone intelligenti abbastanza da averne compreso molto e da non mistificarli (e persone che ancora li raccontano invece sulla base di piccole esperienze personali, interessanti ma assai riduttive) ma anche loro incapaci del distacco e dell’obiettività necessarie per giudicarli con criteri più ampi, oggettivi, misurati: il loro giusto invito a “contestualizzare” si risolve spesso in un assolutismo “contestualizzatore” che non è mai in grado di misurare gli eventi di allora su una scala più generale, di spiegarli alle orecchie di oggi, di comprenderne l’irrilevanza quanto la rilevanza, di ripensarli come manciata di anni tra centinaia di altre manciate: e non parlo dei nostalgici o degli odiatori, quelli lasciamoli perdere.
Al tempo stesso, ho visto miei coetanei o più giovani di me appassionarsi giornalisticamente o letterariamente a quel periodo e provare a raccontarlo: ma in questo caso gravati da cliché e schematismi, oppure da innamoramenti e distanze enormi. Come se studiassero il medioevo, oppure le stagioni di Lost. Senza riuscire mai a capire come era, come era da dentro, se non collocando tutto in dinamiche letterarie prevedibili, a volte anche fondate ma nella maggior parte dei casi superficiali. Senza esserci stati, insomma: figli per forza di altre metriche.
La riflessione mi interessa perché credo la si possa estendere a molti altri contesti: nativi e tardivi digitali, per esempio. E che sia una buona lezione per le eccessive pretese di incasellamento e semplificazione degli eventi: c’è sempre qualcosa che non avremo capito, e quel qualcosa sarà importante. E “i conti con quel passato” si chiudono – si sono già chiusi, per la maggior parte di noi – da soli, inevitabilmente: lasciandoci, inevitabilmente, una palude di contraddizioni e versioni diverse, e paragrafi semplificatori nei libri di storia.
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