I limiti della grandezza, nei festival

Il tema dei festival culturali cittadini che sono dilagati in Italia negli ultimi due decenni mi incuriosisce molto. Anzi, i molti temi: il loro successo di pubblico, il rapporto con le città, le composizioni dei programmi, la pigrizia dei format degli eventi (giornalista-intervista-autore-con-libro-in-promozione barra dibattito, salvo rare eccezioni). Tanto che mi ha incuriosito (dopo il microesperimento di Kinder, la festa di Condor a Gressoney) accettare l’invito del Festival delle Letterature di Pescara di curare una parte del calendario di quest’anno (il prossimo weekend).

Qui riporto solo un pensiero banale e accessorio alla discussione che vedo in corso sul prossimo festival di libri a Milano, che si chiama BookCity, e si terrà nei prossimi giorni (ho un conflitto di interessi, quindi): mi pare di capire che stiano litigando sulle rispettive importanze tra Milano e Torino (e Roma, prima). Ma a me sembra evidente che nessun evento di questo genere possa essere organizzato in una grande città come Roma, Milano, ma anche Torino (dove pure una vecchia tradizione ha attecchito meglio), senza perdere tutto il fascino e la potenza identitaria che hanno quelli che da anni si svolgono nelle città più piccole. Per quanto Milano attragga più facilmente autori famosi e importanti, la loro presenza si perderà in una metropoli che organizza ogni settimana milioni di altre cose, i visitatori al Castello Sforzesco si confonderanno con i turisti giapponesi e la città se ne accorgerà appena. Sarà una buona occasione di promuovere e vendere dei libri in un momento difficile, ma niente di più culturalmente robusto. Niente di paragonabile con l’evento articolato e straordinario che sono i festival di Mantova, di Pordenone, di Internazionale a Ferrara, di Pescara stessa, per citare quelli che conosco (ma poi Trento, Cuneo, Modena, Sarzana, Cortona, Matera, Arezzo, Riva del Garda, eccetera). Lo sa la stessa milanese Mondadori che si è creata da due anni un suo proprio festival riuscitissimo, ma a Pietrasanta. E non è solo per i libri: alla fine il festival del cinema di Roma ha una sua forza legata alla grande tradizione e fama del cinema romano, ma è solo Venezia che è capace di diventare essa stessa il festival del cinema. E Cannes, per fare un esempio straniero. O il Sundance (conosco poco Toronto), o Deauville. O New York, certo: ma lo hanno chiamato Tribeca e localizzato.

Nelle grandi città i festival possono essere interessantissimi in termini di contenuti e raccontare i libri a molte persone (che probabilmente avranno già avuto altre occasioni di ascoltare gli stessi autori), ma si rannicchiano in mezzo a mille altre cose, finiscono per somigliare a convegni, con una grande esposizione mediatica (redazioni e tv hanno più facilità a seguirli e raccontarli) ma senza niente in mezzo tra le due scale, quella della sala della presentazione e quella del Tg: inevitabilmente. Nelle città di provincia sono un vero fenomeno fatto di eventi collaterali, di comunità intere assorbite, di identità legate, di folle di interessati che occupano e scoprono quelle città.

In questo, forse, Torino ha una marcia in più: avendo tribechizzato la sua fiera al Lingotto, che pure avrebbe bisogno di qualcosa di più intorno che non solo Eataly, e un brutto centro commerciale. Ma il fenomeno affascinante di questi anni è tra portici, piazze e teatri.

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4 commenti su “I limiti della grandezza, nei festival

  1. Drockato

    “la pigrizia dei format degli eventi (giornalista-intervista-autore-con-libro-in-promozione barra dibattito, salvo rare eccezioni)”

    mi si perdoni l’ardire, ma… a casa del peraltro direttore del Post la si pensa tutti così?
    ciao

Commenti chiusi