Allora, nel 1980, di “Johnny and Mary” in breve tempo non se ne poteva più. Io almeno, non ne potevo più. Quella base sintetica, che diventò immediatamente il suo tratto speciale e peculiare, raggiunse anche rapidamente la soglia di saturazione. Si sentiva ovunque, e partiva dopo quei due colpi di batteria così insignificanti eppure così riconoscibili: era l’equivalente dei popup di pubblicità sui siti internet di oggi, sentivi quei due colpi e cambiavi canale alla radio, mentre attaccava il giro, la cui ripetitività era aggravata dalla mancanza del ritornello.
Eppure era un gran pezzo, non ci avessero sfinito, e a distanza di anni – superato anche l’abuso delle pubblicità Renault – dico che quella stessa assenza di refrain aveva del genio creativo: era la canzone infinita, cominciava così, proseguiva così, finiva così. E associava a un andamento sostenuto, quasi allegro, un modo di cantarla di Robert Palmer freddo, severo, indifferente. C’era qualcosa di torbido. Gran pezzo.
Fuori dall’Inghilterra di Robert Palmer non si ricorda molto altro: quelli più appassionati possono citare la collaborazione con mezzi Duran Duran nei “Power Station”, le modelle nei video, la bella ballata “She makes my day”. Morì a soli 54 anni a Parigi dove era col suo amico Jack Bruce dei Cream, dieci anni fa, per un infarto. Ora esce una sua nuova raccolta: non vale la pena, in effetti. Ma io mi sono ricomprato “Johnny and Mary”.
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