Questo articolo era uscito su IL l’anno scorso, torna buono in questi giorni di discussioni sull’attribuire le colpe dei disastri nazionali “agli italiani”, ma sempre a degli altri italiani.
C’è quell’espressione, “attaccati alla poltrona”. È uno dei molti deprecabili concetti che associamo all’idea che ci siamo costruiti degli italiani, nei decenni. O meglio, non proprio degli italiani.
Degli altri, italiani.
Da un po’ di tempo, gli italiani non siamo noi.
Una sera, in una puntata di Ballarò, hanno mostrato una serie di interviste fatte a Bologna durante un incontro organizzato dal quotidiano La Repubblica: il giornalista chiedeva quale fosse il problema, con l’Italia. E tutti rispondevano che il problema sono gli italiani; rispondevano con un sorriso imbarazzato, scorati, disincantati, un disincanto familiare a molti: alla fine chi di noi non si trova ogni tanto a pensarlo? Persino Umberto Eco, in quel servizio di Ballarò, lo diceva, che il problema sono gli italiani.
Però è buffo, se ci pensate, no? Andiamo dicendo che il problema sono gli italiani, ma non ci siamo mai noi, tra quegli italiani. Sono degli altri italiani. Siamo una grande maggioranza, quasi unanimità, di persone convinte della stessa cosa: di essere una minoranza. Forse basta a fare un popolo unito, potremmo pensare per scherzo: salvo poi fermarci a riflettere che questo siamo sempre stati, dai campanili in poi.
Quell’espressione “attaccati alla poltrona”, l’abbiamo sempre riferita a qualcun altro, naturalmente. A quelli con una poltrona, anche se poi le poltrone sono tante e diverse e se andate all’Ikea ve ne portate via di dignitose per venti euro, a patto che ve le montiate: e qui ci starebbero delle metafore, forse. Ma quando diciamo “attaccati alla poltrona” pensiamo a poltrone importanti, a manager di enti pubblici, direttori di telegiornali, rettori universitari, titolari di rubriche fisse sui quotidiani, presidenti di musei, italiani con la segretaria che gli gestisce gli appuntamenti, quando ne hanno. E soprattutto, politici. Lì la poltrona non è più nemmeno metaforica, o immaginata (in pelle umana? Col ficus?), ma mostrata quotidianamente, a volte vuota ma occupata lo stesso: le si vedono sul canale 524 di Sky, Camera dei Deputati, o 525, Senato della Repubblica, oppure nelle foto dei quotidiani, o nei servizi dei telegiornali. L’attaccamento è divenuto persino un impiccio centrale degli sviluppi della politica italiana di questi anni: non come tema morale ma come ostacolo concreto a ogni ipotesi di scioglimento delle Camere ed elezioni anticipate, e anche di revisione della legge elettorale. Prima ce lo dicevamo dandoci di gomito, che qualunque rottura di alleanze ipotizzata non valeva niente a fronte dell’indisponibilità dei parlamentari eletti (eletti in quel modo là, poi) a cedere il posto anticipatamente. Poi però l’abbiamo visto succedere davvero, con il mercanteggiamento di uomini tra FLI e PdL prima e l’apparizione della razza Scilipoti poi.
L’attaccamento alla poltrona è diventato parte del paesaggio politico italiano, un elemento da considerare alla stregua del problema Giustizia o delle riforme costituzionali. Ci siamo indignati, poi l’abbiamo metabolizzato: anche per quel famoso motivo che una poltrona da conservare ce l’abbiamo tutti, e perché dire che gli italiani sono gli altri ci convince fino a un certo punto, quando siamo soli coi nostri pensieri. E insomma, probabilmente senza Razzi e Scilipoti oggi non ci sarebbe il governo Monti, comunque la vogliate giudicare.
Poi, il mese scorso, è arrivata Marilena Parenti. Forse non ve ne siete accorti in molti, perché i giornali si sono occupati poco di lei. Marilena Parenti era stata la prima dei non eletti alla Camera per il Partito Democratico nella circoscrizione Lombardia 3, nel 2008, che aveva eletto Antonello Soro. Il quale è stato di recente nominato (con polemiche sull’attribuzione di quella poltrona) all’Agenzia per la Privacy, e ha lasciato così per incompatibilità il posto alla Camera (l’altra poltrona). Quindi, il 6 giugno, Marilena Parenti, 36 anni di Brembio provincia di Lodi, è diventata deputato, come annunciava fiero un sito locale: «Oggi le si presenta l’opportunità di far parte della cerchia dei Deputati del parlamento Italiano dando forma e realtà all’originario desiderio politico, che l’ha vista impegnata fin da giovanissima per Brembio e per il Lodigiano».
Solo che in questi quattro anni le cose sono molto cambiate per tutti, e anche per Marilena Parenti, che ha trovato un lavoro a Londra e ora aspetta una bambina. E che quindi – valutando anche l’insignificante ed esautorata durata del mandato, certo – ha spiegato che la sua vita è diventata un’altra e ha rinunciato, presentando le dimissioni: «questa chiamata non coincide più con le mie aspirazioni di allora. Dovrei sconvolgere la mia esistenza. In azienda mi hanno appena promossa. Ho trovato un equilibrio che sarebbe un errore spezzare, e poi le stagioni cambiano». Le subentrerà un secondo dei non eletti.
La politica italiana è così disprezzata, ormai, che la scelta di Parenti ha avuto molti apprezzamenti in rete, non solo di simpatia umana: come se si fosse tenuta alla larga da un posto ignobile e tentatore. Il problema è: come si fa a ricostruire invece una qualità umana e politica in quei contesti se sempre di più sono visti come luoghi da evitare invece che da rinobilitare? L’anno scorso l’avevo scritto così, in un libro.
Nella politica italiana, solo un ricambio energico e fruttuoso può cambiare le cose, ed è difficilissimo da ottenere. Quando sembra possibile se non altro per ragioni di mortalità della razza umana, si rivela in realtà un ricambio illusorio: più giovani mediocrità sostituiscono le vecchie. La politica non è una strada per menti brillanti e ambiziose, creative o generose. Le fatiche, delusioni e frustrazioni che infligge sono imparagonabili alle soddisfazioni che per altre vie questi tempi offrono a qualunque giovane intenda fare cose belle e proficue per sé e per il mondo. Se sei intelligente e hai voglia di spenderti, oggi fai altro – mille cose possibili – ma non la politica. E si tratta di un altro che può davvero migliorare la vita delle persone e la propria, nei campi più diversi. Ma resta il problema: la politica di professione chi la fa? È diventata come il servizio militare qualche tempo fa, che era costretto a farlo solo chi non aveva i mezzi di fare altro. E come tutto quello che funziona male in Italia, è un cane che si morde la coda: la politica non torna a essere attraente e stimolante se non ritrova il suo potenziale di efficacia e la sua vocazione a costruire buone cose. Ma non li ritrova se a praticarla non ci sono persone attive e volenterose in questa ricerca. Questo circolo vizioso si sblocca solo introducendovi degli elementi di straordinarietà – che in giro ci sono – ovvero alcuni giovani (col metro dell’oggi) capaci e appassionati che comincino a scardinarlo non pensando solo di mettere una pezza sul domani e sul dopodomani, ma anche di poter abitare un grande paese, tra vent’anni.
Il libro descriveva molte cose degli italiani di oggi – di noi, cioè – e si poneva il problema di come far saltare quello e altri circoli viziosi. L’Italia, se vogliamo capire come sta, dove va, che prospettive ha, è gli italiani. Persone spesso insicure, frustrate, scontente di sé, a cui i tempi hanno insegnato una rincorsa continua e istantanea di piccole e superficiali competizioni e affermazioni personali, volatili, da rinnovare e rinnovare senza alzare mai lo sguardo. Siamo persone che sono state convinte da decenni di predicazioni commerciali che bisogna essere “se stessi”, che gli altri cercano solo di fregarci, che le qualità altrui vanno invidiate e demolite invece che ammirate e premiate, che le persone straordinarie vanno guardate con sospetto, che le regole sono astratte e che bisogna venire bene quando ti inquadrano, e comunque farsi inquadrare. Abbiamo smesso di votare le persone che credevamo migliori di noi preferendo quelli uguali a noi, o persino peggiori. Ci siamo raccontati che essere minoranza è un vanto invece che una sconfitta. E quando queste cose, e un’idea dell’Italia passata e futura, le ho messe in un libro, un libro sull’Italia, c’è stato bisogno di una copertina.
Cosa mettereste in copertina, per rappresentare l’Italia di oggi o domani? Non è stato facile per niente. Il primo tic porta all’abusato repertorio di bellezza artistiche e paesaggistiche italiane, colossei, cipressi, cappellesistine, faraglioni, niente che abbia un’idea di ripensamento moderno di quel che siamo, vetuste eredità fortunate. Il secondo tic – era anche il 150esimo – guarda all’Unità, Garibaldi, i Mille, Porta Pia: ma malgrado le celebrazioni, anche quelli sono concettti difficilmente rinnovabili. Oggi siamo un paese poco unito, se non politicamente, e l’unità è comunque un valore meno robusto ed efficace di quelli che hanno tenuto orgogliosi altri grandi paesi: le opportunità per tutti degli Stati Uniti, l’uguaglianza libertà fratellanza dei francesi, la colonizzazione culturale del mondo degli inglesi. E in ogni caso entrambi i due tic avrebbero portato a scelte graficamente banali e straviste. Alla fine, malgrado i dubbi dell’editore che temeva l’inflazione del genere, ho deciso io per un tricolore, una specie. Tre pennellate abbozzate di tricolore che nella mia testa volevano essere – oltre che belle – l’idea di un rinnovamento-nella-continuità, come dicono quelli, o meglio di una ricostruzione diversa dell’unica cosa che siamo.
A giudicare dai feedback, ho avuto torto: la copertina di quel libro è stata giudicata la cosa meno attraente dai lettori, e grazie al cielo il libro è andato benino lo stesso. Ma il tricolore funziona poco, comunque lo giri. Ci saranno anche delle ragioni grafiche, forse: le bandiere dei grandi paesi che ho citato hanno altre vivacità e sono tutte bianche, rosse e blu, chissà se qualcuno ci ha fatto riflessioni tecniche (non parliamo poi di avere delle stelle, nella bandiera: ci credo che poi vivi tutto in quel modo là). Eppure, è davvero la cosa principale che ci unisce, nel famigerati successi sportivi a cui pensano tutti quando pensano ai momenti di condivisione nazionale. Se no, gli italiani sono gli altri. “Non fate gli italiani”, sentii dire da una madre imbarazzata ai suoi bambini indisciplinati in un aeroporto americano, invertendo la famosa frase di D’Azeglio.
Quelli che cercano una spiegazione allo scarso attaccamento degli italiani alla convivenza civile e orgogliosa di solito tirano in ballo alcune vicende storiche. La mancanza della Riforma, per esempio. Il nostro essere rimasti un paese cattolico, ospite del Vaticano e del papa, e cattolico nel modo più pigro ed egoista: di quel cattolicesimo fatto di indulgenze e perdoni ideali e che trascura la concretezza delle regole e delle condotte. Quello che le religioni protestanti hanno insegnato in altri paesi in termini di rettitudine, responsabilità, rigore, ruolo della comunità, qua non l’abbiamo visto. Abbiamo amato molto il Signore e poco il nostro prossimo, abbiamo detto molte Ave Maria, e abbiamo rimpiazzato la comunità con la famiglia, con tutto il suo sistema di deroghe e contraddizioni: al punto che «la famiglia» è diventata il modello delle organizzazioni criminali avversarie dello Stato, ovvero della comunità principale. E oggi un fronte di battaglia politica laddove si vuole sostenere che alcune famiglie siano più famiglie di altre.
Poi c’è la questione dei Comuni e dei campanili, facilmente associabile a quella delle famiglie: ovvero la tradizione di appartenenza a una comunità che prevale però su principi, valori o regole condivise e legittimate. In cui quindi contano la riga per terra, le mura cittadine, il nome che si porta, la «tradizione»: tutto il resto è nemico.
Un terzo elemento citato da chi cerca nella storia le cause della debolezza identitaria della nostra nazione è l’assenza di momenti di unificazione, di catarsi rispetto al passato, di azzeramento, di motivazione collettiva. La nazione è troppo giovane per avere l’orgoglio di un passato comune, e il passato precedente è ricondotto ai campanili e a isolati talenti. L’unità risorgimentale è molto fragile sotto questo punto di vista: uno dei momenti più liberali e liberatori della sua costruzione è la breccia di Porta Pia, ovvero un evento sentito persino come un sopruso dalle gerarchie cattoliche. Per non dire della fine del fascismo, che fu una guerra civile e a cui non seguì una rinascita comune ma piuttosto una rassegnata convivenza. L’intreccio tra il boom economico, la democrazia conquistata e l’arrivo della modernità portò qualche anno di entusiasmo, un momento sudafricano di speranza prima di accorgersi che molto era rimasto uguale. Perché ho fatto questa sommaria digressione storica? Perché se questi argomenti sono veri e solidi, allora siamo spacciati, no? Non si cambia il passato, e se questo passato è così pesante nel definire quello che siamo, l’unica possibilità che c’è è liberarsene. La teoria prevederebbe quindi la necessità che si verificassero quel momento unificante, quella palingenesi, quel momento di costruzione condivisa che non ci sono mai stati in passato. Dolore, sofferenza, sacrifico, rinascita: una guerra. Non possiamo sognare una guerra (che dalla Bosnia in poi non è più impensabile). Ci deve essere un’altra strada.
Sto per dire una cosa forte. A molti potrebbe non piacere (io per primo)
Questo paese avrebbe bisogno un po’ di fascismo.
I giornalai e i telegiornalisti dei sacri partiti uniti preferiscono le informazioni suggerite ma c’è un’Italia che fa fatica e che avrebbe bisogno di più attenzione.
Un altro esempio è il recente decreto sul rinnovo dei fondi di solidarietà dei mutui sull’acquisto della prima casa gestito dalla Consap e di cui nessuno parla.
Per accedervi non bisogna essere:
– licenziati per giusta causa
– autolicenziamento per motivi personali
– pensionati
– liberi professionisti
– anziani
– licenziati per giustificati motivi soggettivi
Che bello essere italiani.
Tutto vero.
Solo che gli italiani, io, tu, noi o gli altri, non ci siamo o non ci sono ancora.
L’aveva detto Massimo D’Azeglio che, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani.
Rileggersi il dialogo tra il Principe di Salina e l’inviato piemontese del governo a Donnafugata su “il Gattopardo” per intravedere la differenza che c’era e c’è tra un siciliano ed un piemontese.
E invece, 150 anni dopo – o, se vogliamo andare più indietro nel tempo, potremmo anche dire circa 3000 anni dopo – gli italiani non si sono ancora fatti.
Tanto è vero che per il fiorentino Renzi – solo per fare un esempio da moltiplicare per 60 milioni – Gianni Letta non è un italiano, è un “pisano” – che per un fiorentino è il peggio del peggio -. Ma oriundo abruzzese, non de L’Aquila come Bruno Vespa, ma di Avezzano. Pfui!
E questo articolo, dopo essere stato pubblicato lo scorso anno, lo potrai ripubblicare l’anno venturo o fra trenta, cinquanta o cento anni, e non sarà cambiato niente. Per ogni italiano, gli italiani colpevoli saranno sempre gli altri. Per me L.S. e gli altri. Per L.S. e gli altri compreso Umberto Eco, io.
Ricordo male o il Principe di Salina in quel dialogo ha compiuto una feroce critica ai danni del popolo siciliano e mediterraneo in generale?
Caro Lorenzo68, ricordi abbastanza bene. Ma non farebbe male rileggersi quel capitolo.
“Uno di loro – un ufficiale della marina inglese – poi mi chiese che cosa veramente venissero a fare qui in Sicilia quei volontari italiani – era il 1860 e si trattava dei garibaldini sbarcati a Marsala che si aggiravano lì attorno – ‘They are coming to teach us good manners’ risposi ‘ But they wont succed because we are gods’. Vengono per insegnarci le buone creanze, ma non potranno farlo perche noi siamo dèi.
Tomasi di Lampedusa si riferisce ai siciliani che si considerano perfetti e pertanto non migliorabili.
Ma così è anche per ogni abitante d’Italia. Che sia calabrese, molisano, campano, pugliese, abruzzese, marchigiano, laziale, umbro, toscano, ligure, emiliano, veneto, lombardo, piemontese, aostano o altoatesino.
Gli Italiani sono Italiani e basta, siamo figli della nostra storia(sic). Da almeno quarant’anni manchiamo di una “government” congrua e conveniente ai tempi in divenire.Provate a pensare ai grandi paesi,europei e non, con i quali ci confrontiamo ogni giorno, ognuno di essi ha avuto nella propria storia recente uno o più statisti che hanno saputo modificare o correggere il percorso intrapreso mantenendoli aderenti alle nuove necessità e realtà, talvolta in modo brusco o senza troppe “concertazioni” secondo il principio che i governanti hanno il dovere di governare con la diligenza del buon padre di famiglia. Noi non abbiamo avuto simili esempi, certo le cause sono molte… il cinismo che abbonda e il civismo che latita e quindi noi dovremmo essere trainati o addirittura pungolati da una buona guida (non certo da un generico fascismo) mentre altri trainano spontaneamente perchè forgiati da idee e valori nati da rivoluzioni che a noi mancano. Il risultato è una “governance” deludente e tale rimarrà fino a quando non emergeranno veri leader con visione e coraggio. Anni fa Scalfari, mi pare, auspicava il dittatore illuminato, beh, tutto mi divide da un tale esempio di snobismo elitario ma oggi forse, in questo buio che di più non si può proverei anche quello.
Quando Luca scrive che dobbiamo emanciparci dal nostro passato, che ci restituisce continuamente un’identità di sfaccendati nel campo delle riforme, non può non tornare alla mente la famosa frase del grande Gatsby, che adesso è anche al cinema ma lasciamo stare. La frase in questione è: « Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato. » Ditemi voi se mai ci fu migliore rappresentazione degli italiani.
Ovviamente la soluzione per superare tutto questo proprio non ce l’ho.
questo argomento non è nuovo. Ogni tanto qualche commentatore lo rimette in circolazione, richiamando il senso di estraneità che i parlanti testimoniano nei confronti di “altri”di cui riconoscono le malefatte, ma non certo le loro. Credo che questo spropositato esercizio di malafede richiami una categoria della psicologia novecentesca: la proiezione. Cercherò di spiegarmi. Negli ultimi 65 anni frotte di operai hanno trovato lavoro nelle grandi come nelle piccole fabbriche(sì proprio la classe operaia) grazie a raccomandazioni; i concorsi pubblici sono stati facilmente manipolati inserendo in ministeri, scuole, comuni, parastato, e altre istituzioni miriadi di persone che in cambio di fedeltà nel voto o di soldi hanno occupato, poco onorevolmente quelle posizioni; come dimenticare poi l’enorme serbatoio della speculazione edilizia (forse il vero punto focale della corruzione nel nostro Paese) col suo abusivismo, il cambio di destinazione dei terreni da agricoli in edificabili (ricordare Antonio Cederna) ecc.
Per farla breve, per me, costoro sono l’elemento portante delle maggioranza politiche che hanno governato l’Italia nel dopoguerra. Non sono però in grado di confessarlo neppure a se stessi e per sgravarsi la coscienza proiettano questa oscura colpa su gli “altri” allontando in questo modo che qualcuno li indichi come colpevoli.
@ the town marshal scrive:31 maggio 2013 alle 15:50
Se gli Italiani sono italiani e se siamo figli della nostra storia, non vedo come potremmo avere una governance diversa da quella che possiamo produrre da non forgiati da idee e valori nati da rivoluzioni che a noi mancano. Per la stessa ragione non potremmo mai produrre il dittatore illuminato auspicato con snobismo elitario da Scalfari. Un dittatore, un masaniello, sì, potremmo averlo. Ma illuminato…..sai già com’e e come poi va a finire.
Conclusione: dobbiamo acconentarci delle governances che siamo in grado di produrre col nostro mediocre livello mediobasso . Anche e soprattutto quando ci impongono le massime personalità delle nostre Università e delle nostre Banche- il più alto livello di ingegni che siamo capaci di produrre, a parte i nostri giornalisti e il Della Valle – come Monti, Fornero, Passera & Co.
Non siamo capaci di mantenerci una decente compagnia aerea, figurati le governances.
caro luca, la ragione per cui ti leggo con piacere e’ che spesso mi ritrovo in quel che scrivi; e’ da tanto che sostengo che dobbiamo smettere di pensare che tocca agli altri cambiare, dobbiamo imparare ad accettare i cambiamenti anche nel nostro giardino e soprattutto dobbiamo imparare che non esiste un noi buono e un loro cattivo e che bisogna valutare le persone singolarmente, anziche’ generalizzare in blocco, perche’ la generalizzazione secondo me e’ la madre dell’immobilismo e noi non ci possiamo piu’ permettere di rimanere comodamente immobili e irrimediabilmente lamentiferi come spesso fatto finora
Diego Volpe Pasini, che della volpe a poco, ispiratore dell’esercito di Silvio, l’associazione che tenta di arruolare i soldatini per difendere i crimini di Silvio ha dichiarato: “Nei comizi la Polizia non serve a un cazzo per difendere il diritto di Berlusconi di parlare. Ci vuole l’Esercito di Silvio, così iniziamo a darle” poi: “…facinorosi dei centri sociali, di Sel o del Movimento 5 Stelle.Qualcuno deve iniziare a prendere quattro sberle.”….
http://pagliablog.blogspot.it/2013/06/istigazione-delinquere-delle-camicie.html
Nel mondo antico le città svolgevano un ruolo primario nel territorio in quanto rappresentavano il potere e la politica che spesso erano caratteristiche esercitate dal popolo e quindi una prerogativa della cittadinanza….
http://pagliablog.blogspot.it/2013/06/la-politica-ignora-milioni-di-persone.html