Élite ed eletti, sono la stessa parola

«Finiremo per rimpiangere le élites», dice Michele Serra nella sua rubrica di oggi, entrando con prudenza nel terreno delle complicazioni della democrazia populista, quella per cui tutto ciò che è di ampio consenso e popolare è buono, e quello che discende dall’alto di competenze isolate cattivo (e quella che non sa capire che esperti e popolo sono spesso le stesse persone, che si scambiano di ruolo nei diversi contesti).

Una stretta di mano entusiasta allo chef fiorentino Fabio Picchi, che dichiara di considerare le “recensioni” assembleari di Tripadvisor degne solo di una grande risata. Però, trascorso l’entusiasmo, mi rendo conto che la questione è delicata, e irta di implicazioni politiche decisamente spinose… Perché decidere che una singola recensione firmata da un gastronomo vale di più dell’opinione cumulativa (e molto manipolabile) raccolta da un sito web, significa dichiarare che l’autorevolezza di un singolo esperto è più affidabile di un giudizio corale; una specie di “uno vale mille” che non brilla, mi rendo conto, per spirito democratico. Di questo passo — lo dico anche a Picchi — finiremo per rimpiangere le élites

La prudenza di Serra è “politica”, perché conosce il radicamento dell’antielitismo meccanico (anche dentro di sé), e conosce la difficoltà di sostenere pubblicamente e con se stessi che spesso nella storia sono state – e sono tuttora – le élites a cambiare le cose in meglio (almeno da quando ebbe la gentilezza di leggere e presentare Un grande paese).

Lo scarto tra i due modi di intendere l’elitismo deriva dal diverso modo di intendere la composizione delle élite e dai processi storici che le hanno formate: dove, come prevalentemente avviene oggi in Italia, le si ritengano consorterie di potere aliene da punti di merito e chiuse al ricambio, esse divengono un nemico da smantellare, e legittimano gli antielitismi. Se invece si dà al termine un significato più nudo e proprio, che definisce gli «eletti», non solo nel senso democratico (quelli che sono stati eletti) ma nel senso per cui si dice anche «il popolo eletto», ovvero coloro che hanno talenti e qualità eccezionali e superiori rispetto a un compito o un destino, l’elitismo che mira a promuoverli assume una connotazione positiva (migliori risultati nelle scelte delle classi dirigenti si avranno quindi quando gli eletti dalle loro qualità coincideranno con gli eletti dai voti: sintomo della realizzazione di una democrazia informata).

«Antielitismo» è il termine che invece indica l’opposizione all’elitismo in quanto tale: è antielitista chi contesta l’idea che a ruoli di potere e responsabilità debbano accedere persone di qualità superiori e straordinarie. Può sembrare sulle prime impensabile che esista una simile opinione, ma invece prospera per diverse ragioni. Una è la repulsione che presso alcuni suscita l’idea che ci siano persone di qualità superiori rispetto ad altre, repulsione dovuta a un eccesso di «correttezza morale», a un malinteso senso di uguaglianza. Dove l’uguaglianza è soppiantata dall’egualitarismo: invece di chiedere pari diritti e pari opportunità che ogni singolo possa sfruttare per ottenere dei risultati, queste persone chiedono che siano sempre pari anche i risultati.5 Un’altra ragione di adesione all’antielitismo è il meno leale fastidio nei confronti di qualunque élite a cui non si appartenga (le élite sono minoranze, i loro critici maggioranze anche se fingono di no): i sentimenti di invidia, frustrazione, competizione sono umani, e ancora di più lo è la percezione di una superiorità esibita e di una mancanza di umiltà da parte delle élite, per quanto capaci e competenti siano (parlo dopo della nostra difficoltà ad accettare le qualità altrui che non abbiamo, e ancora di più ad accettare «lezioni»). Un’altra spiegazione ancora è un equivoco «antielitarista», a cui sfugge la differenza tra le élite e le caste, soprattutto quando le seconde prevalgono e trascinano nelle loro indegnità tutto e tutti, spingendo a buttare l’acqua pulita assieme ai bambini sporchi (lo so, l’idea che i fallimenti di certe presunte élites non mettano in discussione l’elitismo somiglia molto alla tesi di quelli che dicevano che il fallimento del comunismo si dovesse alla sua mancata realizzazione, mentre il progetto era buono: ma la differenza è invece vistosa, in termini di successi storicamente dimostrati o no). Alcuni commentatori propongono che il contrario dell’elitismo sia il populismo, e si può dire in effetti che il populismo comprenda l’antielitismo. Ma nell’uso del termine populismo c’è anche un forte riferimento ai modi con cui il messaggio politico è trasmesso, principalmente attraverso la demagogia, ovvero l’assecondare (soprattutto a parole) le aspettative dei cittadini per ottenerne consenso, qualunque esse siano. Tanto è vero che oggi nel dibattito politico e giornalistico la parola populismo è usata spesso come sinonimo di demagogia. Ma un’altra accezione importante del termine populismo è quella che si riferisce all’esaltazione del mondo popolare e a tutto ciò che ne viene, in contrapposizione a ciò che è prodotto dalle élite. Quando gli esponenti politici di sinistra che hanno appena denunciato il «populismo» di Silvio Berlusconi dicono che bisogna imparare a recuperare il consenso, stare più a contatto col «territorio» e con la «gente», il loro è ugualmente populismo: che può anche essere una buona cosa (in teoria, in una democrazia, ciò che fa appello alla volontà di una maggioranza potrebbe essere buona cosa) a patto che il popolo sia informato, presupposto della democrazia.

Occhio che questo è lo snodo principale di tutti gli equivoci che si sviluppano intorno alle esaltazioni della democrazia, sincere o strumentali che siano. Una democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa. Funzionano bene le democrazie in cui i cittadini sono informati correttamente, e male quelle in cui non lo sono. Come diceva Goffredo Parise, «Credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non c’è l’una senza l’altra». Frequente nel populismo è invece l’appello alla volontà popolare coordinato con un investimento deliberato sulla disinformazione dei cittadini.

(qui il resto)

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9 commenti su “Élite ed eletti, sono la stessa parola

  1. Vittu

    Il discorso è interessante. Mi fermo però al caso del cuoco. In quello specifico caso, il giudizio del critico conta meno di quello di chi scrive su tripadvisor. Questo perché essere esperti in qualcosa, o meglio, educati in qualcosa, cambia profondamente la nostra percezione, compreso il senso estetico. E non sto parlando di un livello differente di elaborazione e riflessione sulle questioni, è proprio il cervello dell’esperto che si plasticizza, al punto che anche le risposte inconsce sono condizionate dall’esperienza. C’è uno studio danese proprio su questo (mi pare il ricercatore si chiami Kirk se non ricordo male), che dimostra che anche quando un esperto e un non esperto danno lo stesso identico giudizio sulla stessa cosa, in realtà hanno attivato aree cerebrali completamente differenti. Perciò, il cuoco, può solo decidere se cucinare per il critico o cucinare per le persone, non c’è via di mezzo.

  2. Pingback: Élite ed eletti, sono la stessa parola | Wittgenstein | NUOVA RESISTENZA

  3. mORA

    Stiamo diventando statunitensi, nel senso inteso da Asimov:

    There is a cult of ignorance in the United States, and there has always been.
    The strain of anti-intellectualism has been a constant thread winding its way through our political and cultural life, nurtured by the false notion that democracy means that “my ignorance is just as good as your knowledge” (Isaac Asimov)

  4. fp57

    Coltivo il dubbio che nella storia siano state le elites a cambiare le cose in meglio e rimpiango il tempo in cui la classe media era pensante e “illuminata”

  5. Raffaele Birlini

    Non appare, forse è troppo lungo, provo a mandarlo a pezzi.

    Ci sarà sempre qualcuno che comanda, che decide, ciò che conta è il metodo di selezione delle èlites. Se si decide a maggioranza non c’è nessun metodo, si deve solo combattere a colpi di marketing per convincere la gente a “non sbagliare a votare” e sperare che prevalga la scelta giusta per fortuna o provvidenza. Il meccanismo nel voto a maggioranza è orientato all’egoismo, anche nascosto dentro a un contratto sociale, nessuno vota la propria prigionia per favorire la libertà altrui, nessuno vota per diventare più povero o per ammalarsi. Se però selezioni i potenti in base a rapporti di parentela, amicizie, favori, mafia, origini territoriali, militanza, capacità di ricatto, minacce di ritorsioni, violenza mediatica, attacchi della magistatura, tessera partitica, popolarità, ordine professionale, ricchezza, conoscenze, fede politica, prestazioni sessuali, fedeltà, complicità, spartizioni di poltrone, movimenti di denaro… capisci anche tu che non ha alcun senso parlare si élites nel senso di eccellenza personale per qualità superiori, sono mere élites di fatto perché investite dell’autorita di esercitare del potere.

  6. Raffaele Birlini

    parte 3 su 3
    Perciò viene naturale semplicificare e banalizzare la questione delle elites, anche se non appartieni all’elite degli scribacchini a cui viene richiesto di scrivere opinioni, omelie, riflessioni da spirito della scala sulla pregevoli e rinomate pagine dei media tradizionali. Pare infatti che per alcuni sia mera questione di trovare un modo pratico di mandare al potere quelli che loro ritiengono essere i migliori, trovare un metodo che selezioni quelli lì e non altri che piacciono invece a persone reputate antropologicmanete inferiori. Perché un metodo oggettivo per valutare un chirurgo c’è, per valutare un matematico c’è, ma per valutare un artista, un politico, un venditore, un cantante no, puoi solo utilizzare il metodo di quanto fattura, quanti mi piace gli cliccano, quanti voti raccoglie, e il merito si trasforma in trovare fonti di finanziamento per le campagne pubblicitarie. La democrazia a volte finisce per assomigliare a forma di commercio dove si ottiene potere (successo, ricchezza, fama) pagandolo in benessere diffuso e trasferendone il costo sulle generazioni future. A meno che si abbia il petrolio, ma anche lì non è detto, i socialisti venezuelani sono riusciti a mandare tutto in malora lo stesso, parlo dello chavez che quando nazionalizzò l’industria petrolifera venne a venezia e la sinistra italiana lo applaudiva come salvatore della patria. No, per dire, non è che i migliori stanno tutti da una parte, a destra o sinistra che sia, è che i peggiori son dappertutto e a questo punto mi viene il dubbio che non ci sia niente da fare, salvo prenderne atto e smetterla di pensarci.

  7. odus

    “«Finiremo per rimpiangere le élites», dice Michele Serra nella sua rubrica di oggi, entrando con prudenza nel terreno delle complicazioni della democrazia populista, quella per cui tutto ciò che è di ampio consenso e popolare è buono, e quello che discende dall’alto di competenze isolate cattivo (e quella che non sa capire che esperti e popolo sono spesso le stesse persone, che si scambiano di ruolo nei diversi contesti)”
    Non so da quanto tempo in Italia esiste un regime democratico, credo dal 1946 conil suffragio universale ed ilò voto anche alle donne. Negli 80 anni precedenti prima votava il 4% della popolazione maschile individuata per “censo” e poi all’inizio del secolo scorso dall’11% della popolazione sempre solo maschile in possesso della licenza elementare.
    Quindi una democrazia con suffragio di tutti i maggiorenni maschi e femmine ce l’abbiamo solo da meno di 70 anni, più o meno la durata del comunismo in Russia. Ma siccome tutto passa, così come è finito dopo solo 70 anni il comunismo in Russia, può anche finire dopo i soliti 70 anni la democrazia in quanto non più governo del popolo dove un testa è un voto cioè una scelta, ma “populismo” e quindi da abbattere.
    In favore di che? del diritto di voto e quindi di scelta da parte di élites autoreferenziali dove Serra sostiene Sofri e Sofri sostiene Serra. Niente più democrazia a suffragio universale populista con ampio consenso popolare che non può essere buono ma oligarchia con diritto di voti a pochi illuminati capaci di educare le masse ma non per farle votare.
    Ora il problema del voto a tutti non è perché l’ampio consenso popolare è buono in assoluto, ma semplicemente perché il voto di ciascuna persona che forma il popolo risponde all’interesse di quella determinata persona e quando diventa ampio consenso popolare significa difesa di ampi interessi delle sengole persone che formano il popolo.
    Ma chi se ne frega del popolo. Bisogna prendere decisioni che servano all’entità astratta e superiore che è lo Stato o, meglio ancora, l’Economia.
    Bisogna tornare al concetto di etica dello Stato. E per la difesa di questo Stato etico – certamente non fascista – serve il voto di pochi eletti che da soli e sostenendosi l’un l’altro formano la élite.L’oligarchia della èlite.
    Mike Bongiorno avrebbe esclamato: allegriaaa.

  8. pifo

    Lo dico senza (eccessiva) ironia, Dio mi e’ testimone:
    ma perche’ quando leggo Sofri scrivere di elite vengo puntualmente sopraffatto dalla stessa sensazione, dallo stesso dubbio?
    Che di queste benedette elite, Sofri sente di farne indiscutibilmente e autorevolmente parte.

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