Comincia House of Cards in Italia (sul nuovo canale Sky Atlantic) e torno a chiedermi come mai vedendo la serie mi sia sentito così complice e solidale con i protagonisti, coppia di ambiziosissimi americani (lui deputato, lei moglie di deputato) che non si trattengono di fronte alle peggiori turpitudini per guadagnare sempre maggior potere. Perché il fatto è che non mi sono sentito “coinvolto e avvinto” dalla storia, e nemmeno “ammirato” dalla spietatezza dei personaggi: gli ho proprio voluto bene, a tutti e due, soffrendo dei loro inciampi e gioendo dei loro successi ottenuti a suon di traffici e prepotenze. Una spiegazione possibile è che io sia stronzo come loro, e non sono nella condizione di poterlo escludere: e le loro azioni forse soddisfano quindi il mio represso desiderio di compierle. Un’altra spiegazione più nobile, che mi racconto, è che c’è una complicità, appunto, e un’efficienza, nella loro impresa coniugale, che fa invidia e commuove. Sono bravi, hanno un piano, lo realizzano, con grande intelligenza (e alcune débacle occasionali): noi buoni (noi che ci reprimiamo) non potremmo mai, si capisce, ci siamo dati troppi vincoli. Falliamo ogni giorno, per voler essere buoni: però possiamo raccontarci di essere buoni, anche adesso, che facilita le cose e rende accettabili i fallimenti. Claire e Frank Underwood quest’alibi non ce l’hanno, costretti a pensare solo a se stessi: per questo mi fanno tenerezza.
