La questione della mafia

Una volta raccontati e discussi in lungo e in largo i contenuti dell’inchiesta romana su corruzione e appalti, il tema più importante che riguarda l’inchiesta e che non viene molto spiegato è la sua ambizione di contestare agli accusati l’Associazione di stampo mafioso, il reato spesso indicato con l’articolo del codice che lo descrive, il famigerato “416 bis”.
Tutta la costruzione retorica e la tesi dell’ordinanza e della documentazione del ROS sulle indagini fatte, sono infatti dedicate a questo, dalle prime alle ultime pagine: dimostrare che – in un contesto geografico e culturale diverso da quello delle mafie tradizionali – gli accusati hanno tenuto dei comportamenti affini a quelli delle mafie tradizionali e riconducibili a quelli indicati dal codice.

L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.

E infatti sia il GIP che il ROS si dedicano da subito – nelle loro carte – a descrivere le presunte prove di “vincoli”, “condizioni di assoggettamento e omertà”, “controllo”, con accuratezza e insistenza ancora maggiori di quanto non facciano nel costruire le prove sui concreti reati commessi all’interno di questa attività mafiosa presunta. In questo, è illuminante la scelta di persino battezzare l’inchiesta “Mafia Capitale” – scelta dei magistrati, che citano l’espressione 87 volte, non di qualche creativo cronista – e di incentivare i media a usare i termini “mafia” e “mafioso” in ogni occasione possibile a proposito delle cose romane (dentro un più esteso meccanismo di collaborazione con i media, non nuovo).

Mafia Capitale, volendo dare una denominazione all’organizzazione, presenta caratteristiche proprie, solo in parte assimilabili a quelle delle mafie tradizionali e agli altri modelli di organizzazione di stampo mafioso fin qui richiamati, ma, come si cercherà di dimostrare nella esposizione che segue, essa è da ricondursi al paradigma criminale dell’art. 416bis del codice penale, in quanto si avvale del metodo mafioso, ovverosia della forza di intimidazione derivante dal vincolo di appartenenza, per il conseguimento dei propri scopi.

La scelta dei magistrati è probabilmente conseguente alla convinzione che quel reato si configuri, e che contestarlo sia il modo più efficace per ostacolare le attività criminali descritte: ma è anche probabilmente dovuta al timore che in assenza di quello la contestazione provata di singoli reati di corruzione sia molto più difficile e fragile, e si possa risolvere in condanne assai più limitate, essendo i singoli fatti criminali descritti da una enorme ma confusa quantità di smozzicate intercettazioni e dichiarazioni di seconda o terza mano (vedi la bufala delle valigie di Alemanno in Argentina, raccontata da un indagato e finita nei titoli di prima pagina). In cui la stessa attenzione degli accusati a non dire o tradire maggiori traffici o reati concreti è usata dai magistrati a riprova del carattere omertoso – e quindi mafioso – dell’organizzazione.

Di sicuro quello che descrivono non ha niente a che fare con la mafia come la conosciamo: il Foglio ne approfitta per paragonare le due cose e mostrarne le grandi differenze irridendo le pretese dell’inchiesta. E la controindicazione di questa inflazione mediatica e dialettica dell’uso della parola “mafia” è la banalizzazione di ciò che la mafia è davvero, ben altro come sappiamo. Ma il reato si chiama così – “di tipo mafioso” – e quindi intorno a questo si giocano davvero i risultati dell’inchiesta romana: se i magistrati riusciranno a ottenere il riconoscimento del 416 bis l’inchiesta avrà ottenuto il suo risultato confermando ciò che sostiene e provando a smantellare un “sistema” che, mafioso o no, a Roma esiste. Altrimenti resteranno un lavoro enorme di indagini di polizia e una descrizione eccellente di modalità sociali, culturali e criminali di un pezzo di Roma, e una quota variabile di condanne non altrettanto pesanti (alcuni degli arrestati, anche a leggere le carte, sembrano arrestati solo per essere a conoscenza di dinamiche e traffici, più che per dimostrate responsabilità).
Questa è la questione.

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4 commenti su “La questione della mafia

  1. Francesco

    Mi pare che questo spieghi anche la necessità di questo specifico reato: questo tipo di organizzazioni possono creare un grave danno alla società attraverso una moltitudine di piccoli o piccolissimi illeciti, spesso difficili o impossibili da provare (e ancor meno punire), mentre il crimine vero è l’associazione stessa e la somma delle sue attività.
    Da un certo punti di vista la stessa situazione del reato di “stalking”, in cui il problema è l’insieme e non il singolo episodio.

    ps: ovviamente per “questo tipo di organizzazioni” mi riferisco a quella descritta dagli inquirenti, senza prendere posizione sul fatto che la descrizione sia aderente ai fatti concreti.

  2. cinziaopezzi

    a me capita di usare il termine “mafioso”

    probabilmente in modo improprio e solo per gli

    aspetti per cui cosa nostra è più famosa.

    la cosa per cui è più famosa, oltre all’omertà

    e grazie all’omertà e alla paura, è il fatto

    di essere sistema.

    pur essendo parcellizzata in vari gruppi, non

    uguali nelle loro attività e gravità delle

    stesse, non necessariamente collegati tra di

    loro, la mafia riesce a fare cultura.

    riesce a stabilire cosa è giusto e cosa non lo

    è, riesce a convincere le persone a vivere

    dentro al suo sistema, ad accettarlo a non

    ostacolarlo, rendendolo invincibile e

    inamovibile.

    anche coloro che vivono onestamente, devono

    fare i conti con questo sistema, devono vivere

    tra le maglie, parallelamente, senza

    disturbare troppo e soprattutto senza

    pretendere troppo, in particolare senza

    pretendere di cambiare niente.

    allora, benchè derisi, forse vivranno, poiù o

    meno timorosi.

    quindi io non so se questa organizzazione è

    piccola o grande, a palermo, roma o nelle

    valli piemontesi, collegata o meno con le

    altre, ecc. però se CONDIZIONA le persone e le

    attività con cui entra in contatto, se

    COLONIZZA culturalmente le persone che ne

    fanno parte e poi anche le altre, se può

    permettersi di agire quasi alla luce del sole,

    tra istitituzioni che non ne sanno niente e

    individui che la temono e stanno zitti, forse

    merita di essere inquadrata come mafiosa.

    una normale banda criminale non pretende di

    avere ragione, di stabilire come si vive,

    cerca di non farsi notare e difficilmente ha

    molte entrature nelle istituzioni.
    di certo non è accordata con le altre, di

    certo non ci da l’impressione, nell’insieme,

    di vivere in un acquario, noi soli ben

    visibili ed esposti, completamente avviluppati

    da un sistema o una logica incompatibili con

    la dignità e il diritto.

    quasi ribaltando i ruoli e facendo vivere noi,

    rasentando i muri e sperando di non essere

    notati, e loro al centro della piazza, sotto

    il sole, circondati di amici e in piena

    attività.

    se non riusciamo a bloccare le attivià di una

    banda criminale, pazienza, meglio che

    distruggere la vita di innocenti sospetti.
    se non riusciamo a metterli in galera,

    pazienza, speriamo che il capitale accumulato

    gli permetta di avviare un’attività onesta e

    di scrivere un libro su quando erano giovani e

    delinquenti.

    se non prendiamo sul serio le attività di

    stampo mafioso, cominciando con il chiamarle

    con il loro nome, riconoscendo la

    parcellizzazione di un disegno più grande,

    forse anche eversivo con la sua cultura

    parallela, che trova la sua miglior

    protezione proprio nel fatto di essere

    segmentata in micro azioni talmente piccole e

    irrilevante da rendere ridicola la scelta di

    denunciare, o talmente grosse da superare la

    nostra capacità di prevenzione, ecc. se non

    prendiamo sul serio la materia noi non

    eisistiamo più, le nostre parole non sono

    cultura, ma solo chiacchiere, le nostre

    posizioni sono solo fastidi, la nostra

    adesione al diritto solo una velleità da

    utopisti e la democrazia impossibile da far

    funzionare.

    e in quanto impossibile, ignorata e ignota

    un po’ retorica, vero? mi sentivo così, sono d’accordissimo con francesco e soprattutto molto stufa di sentormi dire che le cose non funzionano, quindi…, proprio dalle persone che ne impediscono il funzionamento, credendo di fare niente di che, o addirittura di dar prova di buone capacità di adattamento

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