La mia scuola

Per via di una conversazione pisana, sabato sera, mi è tornata in mente questa cosa che avevo scritto nel 2010 in Un grande paese sul mio liceo: niente di che, nostalgie da compagni di scuola.

La mia scuola, forse la butteranno giù. Il mio liceo. Vogliono farci un centro commerciale. Sembra una metafora inventata, fin troppo perfetta, invece è vero. È una costruzione degli anni Settanta, ammirata e citata in molte storie dell’architettura, ma non ha mai funzionato. Chi la progettò immaginava un mondo diverso, una periferia in cui gli abitanti del quartiere frequentassero i luoghi della scuola e passeggiassero sul suo tetto-parco. Finì che la circondarono di una cancellata e il tetto-parco fu reso inaccessibile. Oggi è piena di buchi e guai che i fautori della demolizione dicono sia troppo costoso restaurare. Fu un esperimento di apertura della scuola e dei suoi metodi che avrebbe avuto bisogno di tempi migliori: invece, intorno, il mondo andò in un’altra direzione, ci vennero ansie e paure, l’Italia fu governata male, il sistema scolastico fu trascurato, la cultura e l’identità nazionale si persero, tutto peggiorò. Realizzare quel progetto divenne come aver aperto una nuova banca cooperativa nel 1928, o aver fondato un’etichetta discografica nel 1997. Timing sbagliato, come si dice. La sperimentazione didattica si spense, quel che ancora aveva bisogno di crescere fu messo alla gogna senza appello, quel che prometteva non fu sufficiente. Erano gli anni Ottanta, facevamo lezione anche i pomeriggi, studiavamo due lingue, c’era un precoce piano di studi personalizzato in cui gli studenti potevano scegliere gli approfondimenti, avevamo molti bravi professori e una forte insistenza sul «metodo». C’era una grande responsabilizzazione e coinvolgimento degli studenti. Molte cose erano ancora migliorabili, ma alla mia maturità le commissioni esterne non bocciarono un solo studente in tutte le quinte: e ci fu un solo trentasei. Non so che bilancio ne farebbero giudici più esperti e obiettivi con criteri più convenzionali (non so niente dei Sepolcri, ancora oggi; e non studiai il latino): ma quella scuola lì, fatta così, produsse un gruppo (eravamo tre sezioni «sperimentali», con molti corsi comuni) che pur provenendo da classi e famiglie le più varie e in media non particolarmente colte e privilegiate¹ uscì dal liceo con una coscienza della priorità della cultura e della preparazione e una condivisione responsabile e sincera del ruolo della scuola, che se le avesse fornite ogni istituto d’Italia adesso saremmo il paese dell’eccellenza scolastica, scientifica ed etica, nel mondo. Invece smantellammo, e demoliremo.

C’era un segreto? Non lo so: diffido delle teorizzazioni esatte di rapporti tra cause ed effetti, e può darsi che una serie di fortunati eventi abbia concorso alla realizzazione di un quinquennio che tra pure tra limiti e insuccessi fu un laboratorio che avrebbe potuto essere molto proficuo, e per noi lo fu. Il segreto, banalmente, fu forse di aver creduto nella scuola e nelle opportunità di migliorarla per il bene di tutti. Ma ci fu anche lì un po’ di Rocky che si rialza: una grande insistenza sul lavoro sperimentale che si stava facendo e su un’originalità del metodo, sul tentativo di fare le cose diversamente, e farle meglio. Un senso identitario di gruppo non legato semplicemente a una divisa da balilla, una memoria risorgimentale o un tricolore, ma a qualcosa di concreto e responsabilizzante che andava controcorrente rispetto alla palude didattica e amministrativa che già allora sembrava impantanare la scuola italiana.

Intanto, la «cultura» di un paese è diventata il contrario di quello che dovrebbe essere. Il pensiero reazionario, i leghismi, la ricerca di sicurezza e la fossilizzazione del passato e del presente hanno portato al successo l’equivoco per cui la nostra cultura sarebbe il nostro passato invece del nostro futuro. Abbiamo abolito uno dei due significati della parola – ciò che esiste e che possiamo potenzialmente conoscere – in favore dell’altro, più pigro e rassicurante: ciò che siamo e che già conosciamo. Definiamo «la nostra cultura» quello da cui veniamo invece che quello che potremmo diventare. Le radici, ciò che ci lega e ci tiene immobili. Ed è un discrimine rivelatore quello tra chi pensa che la propria cultura risieda nel passato, nelle tradizioni, nella storia prima di lui, e chi pensa che sia data invece dalle sue esperienze, dal suo divenire, dal suo futuro, dalle cose che può ancora imparare.

Non so se la scuola oggi possa avere ancora quel potere di costruzione del futuro di una nazione che le abbiamo sempre attribuito. Se ci possa aiutare a «dedicare la nostra esistenza a qualcosa che non appartiene alla sfera della sopravvivenza, del successo o dell’arricchimento, alla sfera della cosiddetta felicità privata, ma a qualche cosa che dia valore e sostanza all’idea dell’uomo che tu ti fai e che l’umanità si è fatta nei momenti migliori della sua storia» (Goffredo Fofi). Il mondo è cambiato molto, i luoghi alternativi di apprendimento e raccolta di esperienze e cultura sono assai più competitivi di un tempo, gli studenti sono cambiati, soprattutto nel mondo occidentale. Nemmeno il più grande investimento in soldi, impegno e intelligenze potrebbe per esempio consentire alla scuola di creare nuove generazioni capaci di migliorare questo paese, senza un contributo collaborativo nuovo da parte delle famiglie. Ma questa prospettiva va di certo costruita, controcorrente e a costo di fatiche e frustrazioni. Una paglia di cui essere orgogliosi si ottiene facendo delle cose, costruendo idee e innovazioni, riempiendola di italiani straordinari: e gli italiani diventeranno straordinari solo se ci sarà un sistema scolastico che li aiuti e li stimoli e abbia questo obiettivo e insegni loro ad accettare lezioni. E il sistema scolastico ci riuscirà solo se sarà motivato e finanziato in questo senso e diretto con intelligenza e con un progetto: non con continue riforme senza visione e col braccino corto, come accade da decenni. E ci riuscirà solo se sarà delegato a farlo da tutti e da famiglie che abbiano rivisto e ripensato le loro aspettative nei confronti dei figli, della scuola e del loro paese in senso più ambizioso, meno egoista e più collaborativo. A cui non basti «che sia felice». La vecchia formula del mondo migliore da lasciare ai nostri figli è paternalista, supponente e spesso ipocrita: nasconde la paura che tra poco non serviremo più a niente. Invece dobbiamo consentire ai «nostri figli» di costruirlo loro, il mondo migliore. Ma per fare questo, dobbiamo tornare a pensare che abbiamo tutti molto da imparare, e anche qualcosa da insegnare. Un impegno «politico» in senso esteso, ovvero di ognuno, che voglia ridare all’Italia qualcosa di cui andare fieri, passa per le consapevolezze e gli investimenti su di sé che ho cercato di condividere in questo libro.

Passa per l’allargamento delle «minoranze etiche» e per l’aumento del numero di quelli che si comportano bene: in due modi: aggiungendovi noi stessi e tutti quelli che possiamo. Accettando lezioni e responsabilità, regalando lezioni e pretendendo responsabilità, non sottraendosi mai al proprio giudizio sull’utilità delle cose fatte: e facendo un consuntivo di quello che di buono si sarà combinato nella vita a partire da una semplice domanda. Siamo diventati di più o di meno, grazie a me?

E vediamo quanti saremo, tra vent’anni.

Questo libro andava semplicemente a parare lì, dall’inizio: «Quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare».

¹Era il secondo liceo scientifico periferico di Pisa, i miei genitori insegnanti erano un’eccezione: i miei migliori amici avevano padri che lavoravano alla Piaggio o facevano il rappresentante di medicinali, e madri che cucinavano in un ristorante o facevano le casalinghe.

 

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