Una preziosa lettrice del Post mi ha mandato questa cosa: è l’ultima lezione di giornalismo di Indro Montanelli, tenuta a Torino, che fu pubblicata dalla Stampa per un anniversario. È di quasi esattamente vent’anni fa, ha dentro sia delle cose dette molto bene, che delle cose molto familiari per noi che stiamo oggi intorno al giornalismo o quel che è, che delle cose illuminanti.
(anche qualcosa di meno convincente, per me, nelle parti più epiche e solenni: e non sono sicuro che Montanelli stesso abbia sempre applicato coerentemente questi pensieri, ma questo non li rende meno buoni).
La prima cosa illuminante è come nella sua prima parte quell’intervento sia oggi validissimo e identico a considerazioni attuali se si sostituiscono questi tempi a quelli, o internet alla televisione. E questa similitudine non va letta con la banalità di chi dica “colpa della televisione/internet” e perdoni altri o se stesso, che è un diffuso pensiero nostalgico superficiale e autoassolutorio: ma con la curiosità di chi voglia registrare che tutte le cose su cui ci agitiamo e preoccupiamo sono quasi sempre già successe, e ne abbiamo digerito i cambiamenti – che ci sono, eccome -, e siamo sopravvissuti, anzi, persino con notevoli progressi sotto molti aspetti.
Una seconda cosa che mi interessa e solleva, è il passaggio – fin troppo apocalittico nelle formule – in cui Montanelli demotiva i suoi giovani ascoltatori aspiranti giornalisti: mi solleva perché è una cosa che quando cerco di spiegarla oggi mi sento sempre uno che spezza i sogni e le passioni. Ma ho continuamente l’impressione che molti ragazzi che oggi vogliono “fare i giornalisti” abbiano in testa dei giornalismi che non esistono quasi più o che hanno poco senso e poca competitività – la colpa non è loro: è di una società e di una cultura intorno che conservano e raccontano ai giovani solo modelli vecchi e anacronistici – e trascurino come meno attraenti le mille opportunità nuove e contemporanee che avrebbero se si levassero dalla testa l’immagine del reporter montanelliano con la macchina da scrivere sui marciapiedi del mondo, che non ha quasi più mercato né aderenza alla realtà.
Vi confesso però che, sebbene abbia amato e continui ad amare questo mestiere, non posso consigliare a nessun giovane di intraprenderlo oggi, perché credo che il giornalismo sia ormai al capolinea.
Il giornalismo non era al capolinea e non lo è ora (probabilmente qualcun altro lo aveva già dichiarato tale vent’anni prima di Montanelli, eccetera): ma quella riduttiva e letteraria idea del giornalismo che coincide quasi soltanto con l’andare per strada e lo scrivere, sì (“voglio scrivere” è ancora oggi il fattore motivante del 95% delle proposte di collaborazione che riceve il Post).
Avere ancora oggi quel “sogno” è rispettabile, ma somiglia a voler fare il poeta: è bello, basta avere chiare quali sono le probabilità di pubblicazione e di poterne vivere. Nel frattempo poi il mondo ha creato il cinema, e un sacco di opportunità nuove in quel campo, che è pure molto divertente e raggiunge le persone più della poesia.
Quella che segue è pure una cosa molto contemporanea, e rende invidiabile un tempo in cui un grande giornalista si poteva permettere di dire quale sia una delle principale funzioni del giornalismo (e di molti altri lavori, e vite), senza temere di essere accusato di superiorità, sprezzo, lontananza dal paese reale, e altre fesserie.
Noi avremo un giornalismo sempre peggiore perché sempre più in cerca di audience, sempre più in cerca di pubblicità e quindi sempre più portato ad assecondare i peggiori gusti del pubblico, invece di correggerli. Intendiamoci, il pubblico è sempre il nostro padrone, non si può prenderlo di petto ma lo si deve educare. Senza mostrarlo però, perché non c’è niente di peggio degli atteggiamenti da mentori.
Poi ci sono altri passaggi molto interessanti, e li vedrete da soli. Naturalmente, da studioso di “notizie che non lo erano”, ovvero del modello professionale e culturale di gran parte del giornalismo italiano, mi interessa molto questa chiara indicazione di Montanelli, che risponde perfettamente ai molti colleghi di Montanelli che assolvono le proprie sistematiche trascuratezze con la fuorviante domanda “ma voi non sbagliate mai?”.
Il pubblico è uno strano animale, sembra uno che capisce poco ma si ricorda, e se vi giocate la sua fiducia siete perduti. Questa fiducia bisogna conquistarsela seriamente e faticosamente, giorno per giorno. Questo non ci mette al riparo dall’errore, ma impone l’obbligo di denunziare noi stessi, quando ci accorgiamo dell’errore.