Il New York Times recensisce due libri diversi tra loro, ma entrambi intorno al tema dei lavori domestici, delle loro ricadute nei rapporti coniugali e familiari, ed entrambi inclini a suggerire di farne meno, di lavori domestici, di non appenderci troppi irrisolvibili conflitti tra uomini e donne, troppe competizioni o affermazioni. Il secondo libro, in particolare, propone di contemplare una maggiore indulgenza nei confronti del disordine, delle cose non fatte, delle scadenze non rispettate o cancellate del tutto.
Non ho letto i libri. Ma chiunque legga l’articolo sa che ci sono almeno due temi non presi in considerazione. Uno è che siamo diversi, a prescindere che siamo uomini e donne, e ognuno di noi ha diverse attitudini, rigori, ansie, soddisfazioni, rispetto a come gestisce il proprio rapporto con le cose e gli eventi intorno a sé. Riuscire a essere ordinati e precisi è per alcuni necessario a una vita serena, o almeno non stressata e nevrotica; non avere assilli e pressioni continue è una necessità per non uscire pazzi per altri, più capaci di ignorare la catasta di vestiti sulla poltrona e la pila della posta da smaltire.
Il secondo tema è che a complicare i propri rapporti individuali con l’ordine e il disordine non è di solito l’arrivo di un coniuge o convivente differente da noi – persona solitamente adulta ed educata alla convivenza civile e al rispetto dell’altro – ma quello dei figli: schegge impazzite naturalmente progettate per creare il caos e l’inaffidabilità a prescindere da qualunque istruzione, da una parte, e dall’altra a mettere i genitori in una condizione – un po’ motivata e un po’ esagerata dalle nostre culture e dalla loro produzione di sensi di colpa – di dover fornire esempi e modelli e regolarità e discipline che essi stessi non darebbero a se stessi. Con risultati – salvo alcuni eroici campioni della genitorialità, disumani e odiati dagli altri – catastrofici di conflitti familiari, sensi di fallimento e inadeguatezza, sopra una vita di calzini sparsi nei divani e ritardi all’ora di cena, eccetera.
Tutto questo conflitto tra ordine e disordine – ordine e disordine di oggetti, di spazi, di tempi, di impegni, di rispetto per gli altri – non sarebbe niente di nuovo, né lo sono queste considerazioni (che mi permetto infatti di fare solo a figli già piuttosto grandi). Se non che ho l’impressione che da diversi anni le nostre nuove vite digitali ci vadano spingendo a loro volta nella direzione di cui si diceva all’inizio, quella dei due libri citati.
Molti di voi si ricorderanno ancora un tempo in cui computer e software avevano tra le loro principali funzioni quella di tenere le cose in ordine: con database e archivi digitali e calendari che riproducevano le gerarchie e le strutture di quelle reali, con oggetti che venivano messi al loro posto nelle loro cartelle, e le cartelle con dei nomi adeguati dentro ad altre cartelle, e tutto “classificato”. E questo tipo di riproduzione ordinata e catalogata si è riflettuto nelle organizzazioni dei siti internet, con categorie e sezioni in cui inserire e distribuire ogni cosa e diagrammi ad albero a seguire ogni sottosezione.
Poi però è successo che i motori di ricerca – online e offline, su internet come nel vostro computer o smartphone – si sono perfezionati straordinariamente e che le opzioni di “ricerca avanzata” siano state raffinate e dettagliate a un livello per cui per trovare qualunque cosa non andiamo più a cercare la sottocartella relativa nella cartella relativa, non abbiamo più bisogno di ricordare dove l’abbiamo messa, ordinatamente. Basta fare un fischio: nella versione digitale del fischio, ovvero scrivere una o qualche parola nel campo di ricerca, e quella cosa trotta fuori da dove si trovava senza che neanche lo veniamo a sapere, dove si trovasse. Oggi potenzialmente tutto può stare in un unico enorme ripostiglio universale, sotto uno sterminato tappeto, oppure disseminato a caso in ogni stanza della casa: quando ci serve, lo troviamo immediatamente comunque. (se ci pensate, anche la progressiva prevalenza dell’uso delle timeline dei social network rispetto alle visite ai singoli siti, sta in un simile andamento).
L’ordine, insomma, non è più diventato funzionale: ma solo estetico, o logico, per menti e sguardi che abbiano a cuore simili rigori estetici o logici. E il multitasking ormai dato per parte delle nostre vite è basato sulla stessa trasformazione: non più fare una cosa dopo l’altra in ordinata e progettata successione, ma farle disordinatamente tutte assieme man mano che appaiono nei nostri destini.
Abbiamo ormai smesso – senza accorgercene – di preoccuparci da quale sito venga un articolo apparso su Facebook o trovato su Google, o se fosse in questo o quello spazio della homepage del suo sito: vive di vita propria, come il calzino. Quindi forse è vero che andiamo verso una maggiore convivenza con ogni forma disordine (i due protagonisti del romanzo di McEwan sono due normali londinesi che vivono con impensabile normalità in mezzo al caos e ai rifiuti). Tempi duri per le menti classificatrici, e per quelle ordinate.