Tu chiamala se vuoi post verità

C’è un articolo di Alessandro Baricco sulla “post verità” nell’inserto di Repubblica che si chiama Robinson (in due parti, qui e qui). Vale la pena leggerlo perché Baricco è più intelligente della maggior parte di noi e ha sempre osservazioni brillanti e scritte con sapienza. E anche in questo caso, anche se io sono del partito di scrivere obiezione con una bi sola. Però in questo caso l’impostazione del pezzo mi pare un po’ ingannevole, con tutta la prima metà e oltre dedicata a criticare l’uso del termine “post verità” sulla base di un equivoco sul suo significato (equivoco che avevo descritto qui, quello di chi lo prende per inutile sinonimo di “bugia”). E al tempo stesso senza indicare abbastanza la differenza tra i dubbi sul termine e ciò che invece davvero descrive: e quindi il lettore ha l’impressione che per Baricco la post verità sia una sciocchezza che non esiste, e che anche lo irrita parecchio.

Avrei una notizia da dare: questa storia della post-verità è una bufala

Ma superata una prima esposizione polemica, Baricco arriva al dunque, e appunto, ci arriva molto chiaramente: una cosa a cui abbiamo dato il nome di post verità esiste eccome, comunque la si voglia chiamare.

Arriviamo alla domanda più importante: se la post-verità è una bufala, qual è la cosa a cui sta dando voce, sta offrendo un design, sta consegnando un packaging efficace?
Per quel che ne capisco io, il termine di post-verità registra, un po’ in ritardo, e sintetizza, in modo piuttosto efficace, alcune cose che abbiamo scoperto recentemente sul nostro rapporto con la verità

Tra queste cose Baricco ne cita una che temo abbia a che fare con il fottuto storytelling (“È più vera una notizia inesatta raccontata bene che una notizia esatta raccontata male”), e quindi aggiunge che “è da stupidi credere che da una parte ci sia la verità e dall’altra lo storytelling”: pur non escludendo di essere spesso stupido, concordo, e infatti il problema è la misura nell’uso dell’una e dell’altro, che a me sembra perduta da un pezzo, con concorsi di colpa vari. La stessa cosa che Baricco fa, nell’articolo e nel passaggio qui sopra, è criticare lo storytelling sulla post verità.
Baricco aggiunge anche un altro paio di cose indispensabili, sul fatto che le bufale dei telegiornali non fossero più pericolose di quelle sul web – anzi – e che la verità dei professionisti dell’informazione, i giornalisti, non sia più vera di quella raccontata da chiunque di noi.
E poi però dice la cosa essenziale, sulla post verità, sul fatto che siamo davvero in un’epoca diversa, anche se a Baricco non piace il nome.

La rivoluzione digitale (una cosa che non ha più di vent’anni) ha mescolato un po’ i ruoli, e ora di fatto una vera separazione tra chi dà le carte e chi le prende sta venendo a mancare. Tutti hanno il loro mazzo e giocano. Risultato: una sovrapproduzione di verità, quindi un’impennata dell’offerta, forse un calo della richiesta, sicuramente un crollo del valore. Per questo, da un po’, la verità sembra valere meno, una merce svalutata.
Se provate a immaginare questi quattro movimenti rotolare uno nell’altro, mettersi in azione contemporaneamente, capite che tutto si è fatto dannatamente difficile. Naturalmente la relazione con la verità non è mai stata una passeggiata, ma è indubbio che da un po’ siamo finiti comunque fuori dalla comfort zone in cui ci eravamo rifugiati, e ci tocca pattinare su un terreno molto scivoloso, fragile e soprattutto sconosciuto. Il fatto importante — da capire assolutamente — è che a patire sono soprattutto le élite, cioè quei gruppi di umani che per mestiere, ceto e vocazione hanno controllato per secoli il monopolio della verità. Paradossalmente, il nuovo statuto della verità rende piuttosto inessenziale quella skill particolare che era conoscere la verità: ignorarla almeno in parte sembra produrre risultati migliori. Sicuramente non è questa un’epoca per specialisti, per eruditi, per gente che sa. Non pensate a Pico de Paperis, pensate anche solo ai giornalisti. In teoria sarebbero quelli più prossimi alla verità, se si parla di notizie: ma da un po’ succede che quello che poi si sedimenta come notizia non viene da loro, o non viene sempre da loro, o non viene da loro quando è importante. Passando da Facebook o da Twitter, milioni di umani che non hanno mai fatto un corso di giornalismo ( e, incredibile, non sono nemmeno figli di giornalisti) fanno informazione, senza che sia il loro mestiere farlo, senza saperlo fare: ma la fanno, e questa circostanza produce notizie, e genera verità. Facendo una media, sono verità più false di quelle che per un secolo il giornalismo professionale ha prodotto quotidianamente? Difficile dirlo. Ma il solo fatto che sia difficile dirlo è una campana a morte per il giornalismo, per i competenti, per quelli che hanno studiato, per le élite del sapere. È effettivamente la fine di un’epoca.
Così, a un certo punto, proprio le élite hanno coniato l’espressione post- verità. Stavano cercando di dire che qualcosa era cambiato, e che il tavolo da gioco non era più quello di una volta, e che loro questa partita non erano mica tanto sicuri di saperla giocare: nel frattempo la stavano perdendo. Di per sé l’istinto era giusto: nominare i cambiamenti. Solo che se scegli come nome post- verità stai già scivolando nell’alibi: non stai riconoscendo che la verità ha assunto un nuovo statuto che non controlli più tanto bene, stai dicendo che la verità è morta nell’istante in cui tu non sei più stato in grado di controllarla: che presunzione, che cecità, che malafede, che menzogna, che bufala, che post-verità.

Ecco, ci sono un sacco di intuizioni, in questo passaggio, ma quella principale è “qualcosa era cambiato”: vediamo di dirlo chiaramente, e di non dare corda a chi sostiene che non ci sia niente di nuovo e le bugie ci sono sempre state, eccetera.
La sola cosa che non mi convince del tutto è l’uso in questa occasione del termine élite, termine e concetto per cui non ho mai avuto nessuna diffidenza, anzi molto rispetto: ma che anche nel suo significato non riduttivo e dispregiativo mi pare inadatto in questo caso. Le élite di cui si sta parlando adesso – allarmate dalla post verità – sono più trasversalmente le persone che conservano l’idea che fatti e sapere siano importanti: molte di loro non appartengono a nessuna élite in senso convenzionale, se non all’élite della ragione. Grazie al cielo, ne fanno parte un sacco di persone diverse in nessuna condizione élitaria, anzi, ultimamente in condizione opposta, se ricordiamo il significato di élite che ha la stessa radice di eletto. Baricco mi pare invece infastidito da un effetto accessorio e meno importante, ovvero il fatto che certe élites culturali si comportino in modo stizzito e offeso nei confronti del cambiamento e non lo sappiano proprio capire (spesso sono gli stessi che dicono che “post verità” non esiste ed è un sinonimo di bugia). Probabilmente ha ragione, è solo questione di analizzare le diverse bolle in cui ci si muove.
Io direi invece che “post verità” è il termine che molti di noi hanno deciso idoneo a descrivere un tempo in cui i fatti  e la loro accurata descrizione contano molto meno nella formazione dei giudizi e delle opinioni.
Su come reagire, convengo che siamo in grande difficoltà, e devo dire che il passaggio dell’articolo che trovo più azzeccato fino quasi a farmi sentire osservato è questo.

Alcuni — più saggi o confusi degli altri, non è chiaro — comprano su Amazon dischi in vinile.

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