La prima è che la contraddizione che ha spaesato molti di noi tra la stima per l’autodeterminazione dei popoli, per le emancipazioni, per le liberazioni nazionali, e la poco convincente scelta indipendentista catalana si risolve, mi pare, con una considerazione: le autonomie e le indipendenze sono giuste, auspicabili, benefiche quando permettono a un popolo che si trova in condizioni peggiori della nazione da cui si vuole emancipare di rimettere in equilibrio le cose, dal punto di vista dei diritti e delle condizioni sociali ed economiche.
Se si trova in condizioni migliori e vuole sancire e garantire questa diseguaglianza a proprio favore, le cose sono diverse e i giudizi pure.
(Ho detto diverse: non siamo schematici).
La seconda è che – viste da qui – l’impressione è che le passioni indipendentiste di molti catalani siano sostanziate molto da un desiderio di identità, appartenenza e riconoscimento, in cui il tratto emotivo, sentimentale, psicologico, ha un peso rilevante rispetto a quello del concreto miglioramento delle condizioni di vita. In questo senso ci sono delle cose di questa storia che stanno nella stessa categoria della vittoria di Brexit al referendum, pur in storie molto distanti. E direi che sbaglia chi dice “è una storia a sé che non c’entra niente con il resto”.
Da una parte, alla causa indipendentista molti catalani stanno dedicando quel bisogno di affermazione di sé e riconoscimento delle proprie esistenze che in altri posti del mondo si manifesta e sfoga in molti altri modi, e che è un tratto peculiare di questi tempi (vedo che alcuni saggi lo chiamano “individualismo”, ma è una cosa più psicologica del vecchio “individualismo” legato a successi e possessi più concreti: questo viene da fragilità, insicurezze, frustrazioni, e non le cura, anzi).
Dall’altra, il fallimento che questa storia sta consegnando al governo Rajoy dimostra che i trionfalismi sul successo elettorale di Rajoy e sul “modello Spagna” come esempio raro di capacità della politica tradizionale di tenere a bada i movimenti “populisti” erano stati precoci e disattenti: c’è nell’indipendenza catalana molta reazione ai palesi fallimenti della politica tradizionale e centrale, che altrove ha concorso a successi grillini, nazisti, eccetera, e in Catalogna per fortuna è finita in una cosa meno qualunquista. Ma di certo si può rimuovere dal dibattito generale quel “guardiamo Rajoy che ha mantenuto credibilità alla politica tradizionale”: il colpo alla politica tradizionale è semplicemente arrivato da un’altra parte mentre tutti guardavano Podemos.
La terza cosa è che un argomento dei catalani indipendentisti è molto simile a quello di alcuni lombardo-veneti del PD che sostengono il Sì al referendum prossimo sull’autonomia: ovvero, in breve, “si è dimostrato nei fatti, che la gestione di alcune attività, servizi, risorse, soldi, è più efficace per i cittadini se consegnata a noi invece che lasciata allo stato centrale”. È un argomento assolutamente fondato. Il punto è però se vogliamo riconoscere questo fallimento dello stato centrale anche quando pensiamo che non sia strutturale ma legato a una mediocrità delle sue classi dirigenti e a un’inefficienza dei suoi funzionamenti attuali, e peraltro sacrificare regioni più deboli a questa idea. Cioè se vogliamo continuare a riparare lo stato unitario o rassegnarci al suo fallimento su determinate cose e sancirlo per legge.
Se si segue il principio per cui “non sempre ciò che è giusto è ciò che è efficace” hanno ragione forse i catalani e quei sindaci del PD lombardi: meglio ottimizzare i risultati per alcuni che mantenerli fallimentari per tutti (ammesso che ciascuna delle due scelte li ottimizzi).
Però quel principio implicherebbe che ciò che riteniamo efficace lo sia anche rispetto a un raggiungimento futuro di ciò che è giusto: che quello che scegliamo sia un percorso diverso, con compromessi e sacrifici, non una rinuncia.
Non mi chiedete dove vado a parare, da nessuna parte facile.
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