Roma, bùttela

Brevissima premessa autobiografica, per non essere sospettato di ingenuità nordista o marzianismo a Roma. Roma è la città che ho frequentato di più, dopo la mia, per i primi 35 anni della mia vita, per storie familiari varie. Poi ci ho passato un anno ancora in questo millennio. Per essere un non romano, la conosco e vivo e adoro da mezzo secolo.
E quindi quando sento le critiche e proteste sul suo attuale degrado, tendo a pensare che siano le solite che sento da sempre, che magari sia solo un periodo un po’ peggiore, e non mi lascio suggestionare.

Le buche, tipo.

Saranno buche, no? Buche nelle strade ci sono ovunque, a Roma ci sono sempre state, solo un po’ di più, e ok. Pure a Veltroni rimproveravano le buche, certi che oggi ricordano quell’amministrazione con nostalgia. I giornali ora le chiamano “voragini” – i giornali hanno sempre bisogno di parole più spaventose – e il termine sta diventando uno di quei terrorismi linguistici che mettono in sospetto: lo leggi e ti viene da dire “esagerati”. Viene da pensare che le buche siano il solito strumento demagogico di contestazione di un’amministrazione comunale.
No.

Ho passato tre giorni a Roma dopo qualche mese che non ci venivo, guidando molto per andare da un posto all’altro con le macchine del car sharing.
Lo so che voi romani lo sapete, sfottetemi – a Milano mi direbbero «l’è riva’ lu’» – ma volevo spiegarlo agli altri: non era davvero mai stato così.
Non saranno “voragini” ma non sono nemmeno buche, perché le buche sono comunque un’eccezionalità rispetto a un andamento regolare del terreno: in diverse strade del centro invece oggi c’è un continuo fondo dissestato con sbalzi di decine di centimetri. Non si distingue la buca dalla non buca. Sì guida con lo sguardo basso verso terra, gli occhi come anabbaglianti. Intorno al Circo Massimo e in molte altre strade le auto si spostano di continuo da destra a sinistra e viceversa, per scansare i tratti peggiori. Ieri mattina a piazza Venezia (a piazza Venezia), di fronte al Campidoglio (di fronte al Campidoglio), tre metri quadrati in mezzo alla strada erano isolati con dei segnali gialli e presidiati da un’auto dei vigili, per una buca.

Un mio amico romano mi raccontava delle lampade che illuminano il tunnel del Quirinale, che ogni tanto si rompono e spengono e però ora nessuno sostituisce più. Il fango che è traboccato nei giorni scorsi sulle banchine del Tevere è stato affrontato con dei nastri di plastica gialli a chiudere gli accessi pedonali alle banchine, e oplà. I rifiuti in giro sono vissuti come parte del paesaggio: fastidiosi ma inevitabili, come le macchine parcheggiate. “Roma è irrecuperabile”, è una cosa che si sente dire spesso fuori Roma, e ormai anche a Roma. Magari è vero, sono tempi in cui anche i più ottimisti tra noi ogni tanto barcollano. Ma è deprimente constatare come questo pensiero sia stato fatto proprio persino da chi la gestisce, Roma, e si è fatto votare raccontando altro: Roma non si ripara, sembrano pensare al Comune, come siamo abituati a pensare da tempo di molte delle cose che usiamo. Quando sono rotte, si buttano.

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