Cosa pensa Di Matteo del depistaggio su Borsellino?

C’è un non detto – o un detto molto poco – nel ricco e rinnovato dibattito sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Uno dei magistrati responsabili dell’inchiesta “farlocca”, come la chiama oggi pure Attilio Bolzoni su Repubblica, è Nino Di Matteo: allora era assai poco conosciuto, stava a Caltanissetta nella procura guidata da Giovanni Tinebra; oggi è diventato molto famoso, per certe sue posizioni pubbliche vivaci, per l’adesione all’accusa su una trattativa “stato-mafia” nel processo relativo, per l’impegno in molte inchieste relative alla mafia e le minacce ricevute, per un’inclinazione (non rara tra i magistrati) all’autopromozione personale, per una rivendicata vicinanza al M5S che lo ha reso persino possibile candidato al Ministero della Giustizia.

Oggi Di Matteo è un imbarazzo, per molti articoli e resoconti sul depistaggio: diversi giornalisti e commentatori che ne scrivono sono o sono stati suoi sostenitori o ammiratori, o appartengono all’ancora radicata e tenace fazione dei giornalisti che pensano che la difesa del ruolo della magistratura passi per la difesa omissiva di ogni suo atto e ogni suo esponente, e si autocensurano di ogni critica. O a quella che semplicemente pensa che nessun magistrato che lavori in Sicilia debba essere disturbato.
Il risultato è che il più noto e importante (Grasso, meno coinvolto, disse qualcosa al Post l’anno scorso; Boccassini fu la più precoce critica di quell’inchiesta) tra i viventi (Tinebra è morto, Vigna è morto, La Barbera è morto) che ebbero consapevolezza da subito dell’esistenza di due piste in conflitto (la versione di Spatuzza, provata; la versione di Scarantino, falsa ed estorta) in questi mesi non viene mai interpellato, e solo ieri Fiammetta Borsellino ha invece voluto ricordarlo, il suo nome: negli anni qualcuno lo ha giustificato dicendo che era giovane, qualcuno che non ebbe un ruolo così importante. Ma i fatti e la storia dicono che lo ebbe (lui stesso anni fa rivendicò in aula la correttezza delle sue scelte), e che lo ebbe rilevantissimo nella difesa della versione “farlocca”, contestando in più occasioni i legittimi e seri dubbi che venivano espressi, e rifiutando di prenderli in considerazione. «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni», disse una volta, con un’acrobazia logica di cui molti pubblici ministeri si sono serviti nella storia dei disastri giudiziari italiani. «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia», disse invece la sua collega Palma, che oggi è intervistata da Repubblica, con risposte assai sfuggenti e insoddisfacenti.

E invece a Di Matteo nessuno oggi chiede niente di un depistaggio acclarato, entrato in una sentenza, in buona parte raccontato nella sua genesi ma misterioso nella sua conservazione, così assidua e vincente da arrivare a ottenere le condanne definitive di innocenti. Nessuno gli chiede, e lui non ne parla, di quali fattori lo spinsero ad affezionarsi così tenacemente a un’accusa demolita in tante occasioni e così indifendibile che la sua collega Ilda Boccassini la raccontò così.

Quando arrivai a Caltanissetta da parte di tutti c’erano perplessità rispetto alla caratura del personaggio Vincenzo Scarantino – dichiara Boccassini -. Ricordo perfettamente che si trattava di dubbi nutriti non solo dai magistrati ma anche dagli investigatori

Per me la prova regina che Scarantino era un mentitore si è avuta proprio quando ha cominciato a collaborare. La sua collaborazione mi ha convinto che eravamo davanti a uno che raccontava ‘fregnacce’ pericolose perché coinvolgeva anche importanti collaboratori di giustizia

Dissi che andava sospeso tutto – ha aggiunto – che dovevamo verificare, avvisare i colleghi di Palermo, fare i confronti e ricominciare con saggezza umiltà ed equilibrio, doti che dovrebbero avere i magistrati

E rispetto alle responsabilità di quei procuratori, Boccassini la pensava così.

Di chi fu allora la colpa per quel depistaggio che compromise le indagini, di Arnaldo La Barbera e i suoi investigatori? Il magistrato [Boccassini, ndr] lo esclude e più volte ribadisce che “è il pubblico ministero il dominus delle indagini”, “quindi se si è andati avanti per quella strada – ha concluso – gli altri colleghi avranno ritenuto di farlo, sono i pm che a fronte di quelle cose hanno deciso di andare avanti”.

Questa valutazione è stata ora fatta propria anche dalla sentenza su quel depistaggio, con qualche prudenza e qualche giro di parole, ma indubbiamente.

Questo insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il metodo Falcone

I magistrati di Caltanissetta di allora non ebbero “un atteggiamento di particolare cautela e rigore”, per usare questa indulgente formulazione, e collaborarono decisamente e deliberatamente al depistaggio, piuttosto che ostacolarlo o scongiurarlo. I magistrati di Caltanissetta di allora si sentirono dire per anni da avvocati e da colleghi che quelle accuse erano incredibili e probabilmente false, e decisero di continuare a sostenerle. I magistrati di Caltanissetta di allora furono informati di un’altra versione – quella vera – e assistettero al suo rendersi anno dopo anno più vera e credibile, e non si fecero domande, non decisero di rivedere le loro convinzioni, non rivelarono a nessuno le proprie riflessioni su una smentita così clamorosa del loro lavoro, sul fallimento di quelle certezze, su cosa diavolo pensassero di quello che era successo, sull’essere stati collaboratori del “più grande depistaggio della storia della Repubblica“, limitandosi al massimo – come anche oggi Palma – a cercare argomenti per difendere se stessi e il proprio errore. Il più importante tra loro oggi è Nino Di Matteo, il quale non ne parla, e nessuno gliene chiede.

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Un aggiornamento del giorno dopo: Repubblica affida venerdì a Liana Milella un’intervista a Nino Di Matteo che occupa un’intera pagina. L’intervista è dedicata però alle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta “trattativa Stato Mafia”, motivazioni che comunque citano anche la strage di via D’Amelio e che sono state pubblicate nel giorno dell’anniversario della strage stessa. In tutta la pagina, tuttavia, non si fa mai menzione del ruolo di Di Matteo nell’inchiesta “farlocca” se non all’inizio, presentandolo ai lettori in questo modo.

Per il resto niente, e il tenore delle domande è questo.

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