Da un paio d’anni si scrive molto in giro della tendenza recente dei grandi brand di moda a produrre e vendere cose “brutte” (scarpe su tutto), dove per brutte si intendono cose che attingono alla cultura e alle abitudini di massa, per definizione antitetiche alla “Moda”: nel dibattito e nelle riflessioni sul tema ci sono analisi che citano l’originalità sovversiva di queste scelte, l’attenzione allo streetwear, la crisi della creatività tradizionale e l’esaurimento dei cicli delle reinvenzioni, o un’ironia originale diventata tendenza mondiale e che non tutti noi qua fuori siamo in grado di afferrare (un po’ come il brutalismo architettonico).
E sono probabilmente tutte cose vere, e di cui da fuori leggiamo con curiosità.
Da fuori però si vede anche un’altra cosa: tra il 2016 e il 2018 un settore creativo considerato tradizionalmente come governato da scelte elitarie, da invenzioni e visioni straordinarie e avanguardistiche ammirate ed adorate in quanto tali, in quanto provenienti da entità sovrumane e quasi divine, invenzioni e visioni da accogliere a ogni stagione con degli “oooh” increduli e devoti oppure con critiche sprezzanti per la loro disumana ricchezza e sfacciato ardimento, distanti dal quotidiano; questo settore, insomma, tra il 2016 e il 2018 viene progressivamente occupato da una predicazione e una produzione che in sostanza dicono “meglio la gente nomale, le cose normali, facciamo della loro sciatteria e bruttezza un valore, celebriamo il popolo in quanto tale, le sue scelte in quanto tali, è da lì che viene il meglio e ciò che è più prezioso, e rimpiazziamo i raffinati costumi degli dei con lo streetwear, le élite col popolo”; “occupiamo i loghi e i luoghi rilucenti di quei brand con dei prodotti orribilmente cheap”; e così questo settore trova il modo, questa predicazione e produzione, di rivenderla agli stessi suoi autori originali in quote estesissime, raccogliendone consenso e potere. Potere economico e culturale, piuttosto che politico.
Non so, vi dice niente?