I termini italiani suonano forse un po’ troppo leggeri, o inesatti per la sensazione: sgradevole? spiacevole? inquietante? scioccante? Il termine inglese in effetti è più adeguato, disturbing. Parlo del documentario in due puntate di due ore sulle accuse di abusi sessuali contro Michael Jackson, che è uscito da poco sulla rete americana HBO e di cui si è parlato molto e si parlerà ancora. Si chiama Leaving Neverland.
Scrivo per condividere e consigliare se guardarlo o no, e non è facile. Se riuscite a non farvene coinvolgere troppo è una storia pazzesca e impressionante, ma non credo che si riesca. Bisogna (per colmo di cautela essendo tutto arcinoto, dirò: spoiler da qui in poi) dirne innanzitutto due cose: la prima è che non è un documentario su Michael Jackson e non è un documentario processuale sulle accuse giudiziarie nei suoi confronti. È la storia di due persone – due bambini, all’inizio – e delle loro vite e quelle delle loro famiglie travolte dall’incontro con Michael Jackson. La seconda cosa è che si deve decidere se credere al loro racconto, cosa che in diversi non fanno o non vogliono fare, mentre il documentario esiste solo per dar loro fiducia. E ci riesce parecchio, con tutte le cautele che si possono avere in casi come questi.
E quindi, se si toglie la patina di morbosità scandalistica e voyeuristica con cui inevitabilmente una cosa come questa ci arriva prima di essere vista (e un po’ anche dopo essere stata vista), il documentario racconta alcune vite e alcune persone che sono storie magnetiche. E quello che per molta parte delle due puntate è faticoso e un po’ sfinente – la lentezza delle interviste, le mille pause spesso artificiose (divenute una fissa dello storytelling contemporaneo), i dettagli ripetuti e ripetuti, la successione di tutti i singoli passaggi anche quelli più insignificanti – concorre però alla fine a rendere chi guarda un ascoltatore diretto delle confessioni e delle confidenze e dei tormenti dei protagonisti, i due ex bambini e i loro parenti. Leaving Neverland non è un buon riassunto delle loro storie, è averli davanti a te che ti raccontano tutta la storia. Con una quota di indiscrezione spesso fastidiosa (in cui i dettagli sessuali sono la parte meno indiscreta, rispetto all’esibizione dei sentimenti, delle relazioni e delle emozioni) che trasforma il film in una specie di psicoterapia di tutti quanti, attraverso le interviste.
Poi c’è Michael Jackson, che in una percezione più immediata sembrerà a molti un mostro, e ad altri una persona sofferente che ha inflitto molta sofferenza. Ma quello che il documentario aggiunge a queste conclusioni – per cui sarebbe sufficiente una sintesi di un minuto – è il torbido aggrovigliarsi di abusi e amore, da una parte e dall’altra, come spiegano bene i protagonisti: che è ciò che genera la pedofilia e la rende terribile anche quando non è violenza fisica o coercizione.
I didn’t believe or understand that the sexual stuff that happened between Michael and I was abuse.
I didn’t feel like I was hurt by it.
That it was anything bad that happened to me.
At that point, it was… I loved Michael. Michael loved me.
This was something that happened between us, that’s it.
But I still had absolutely no understanding that I was affected.
Or any feeling that I was affected negatively.
Mentre quello che il documentario non spiega – ma era un altro tema – è di cosa fossero fatti questo “straordinario talento” e questa grandezza di Michael Jackson, che dagli isolati pezzetti in cui viene raccontato fuori dalla storia delle relazioni, pare una persona di una semplicità estrema e di nessuna brillantezza, che si esprime per banalità e poche parole inespressive, e non ha mai un momento o un episodio di eccezionalità umana che non sia “essere diventato Michael Jackson” a forza di alcune ottime canzonette e molto star system. Anche per questo si fatica a trovarci il “mostro”: sembra un uomo piccolo, invece. E anche per questo suonano ridicole le intense riflessioni su cosa fare della sua musica, se si prendono per buone le accuse: la si ascolta, erano e restano ottime canzonette, malgrado un retropensiero che ormai sarà inevitabilmente disturbing.