Sorvegliare e punire

Molte discussioni che facciamo di questi tempi a proposito di come ottenere dei risultati per il bene comune possono essere ricondotte a un tema più generale e millenario (come direbbe Di Maio), si tratti di come convincere le persone a credere ai dati e alla scienza, di come favorire un ricambio tra le classi dirigenti, di come favorire la civiltà e la buona educazione nei rapporti online, di come combattere l’evasione fiscale, di come fare avere uguali diritti alle donne, eccetera.

Le nostre società democratiche, anzi, prima ancora la “convivenza civile”, il senso di comunità di cui beneficiano poi i singoli individui, il rispetto di determinate regole, sono tutte cose che costruiamo a partire da due approcci: l’educazione e la repressione.
Quando la maggioranza di noi – attraverso la sua rappresentanza democratica, o un dibattito che crea consuetudini – crea delle regole, la loro applicazione è affidata a questi due percorsi. L’aspirazione ideale dovrebbe essere che l’educazione sia sufficiente, ma a seconda dei casi non lo è in misure variabili – siamo organismi imperfetti – e per questo prevediamo misure variabili di obbligata repressione. Per restare sugli esempi più spicci, le nostre culture convengono che ammazzare un’altra persona sia ingiusto e cattivo o che passare col rosso sia sbagliato e pericoloso: e la quasi totalità di noi condivide e registra queste cose e non ammazza nessuno e non passa col rosso, e le cose funzionano bene. Per quella minoranza che non fa proprie queste idee malgrado siano estesamente spiegate e motivate, creiamo i sistemi di amministrazione della giustizia, le sanzioni, le carceri, le multe, i deterrenti, i disincentivi. Poliziotto buono dovrebbe bastare – e quasi sempre basta – se no interviene poliziotto cattivo, sempre dentro regole di cattiveria che abbiamo stabilito e condiviso.

Più una società, o una regola, è capace di educare le persone, meno ha bisogno di sorvegliarle e punirle. Non solo sulle cose più puntuali o violente, naturalmente: anche sui progressi civili e di convivenza. Le quote rosa – non entriamo nel merito, sto facendo degli esempi – sono una forma di repressione dell’incapacità eccezionale da parte della società di educarsi al rispetto dei diritti delle donne. Le regole contro i troppi mandati da sindaco o governatore sono una repressione di una nociva inclinazione dei partiti a sottrarsi a un proficuo ricambio delle classi dirigenti.

Più una società, o una regola, è capace di educare le persone, più serena e proficua per tutti è la convivenza: la repressione è necessaria e utile come protezione rispetto a una quota di fallimento nell’educazione, ma non può diventarne alternativa o scorciatoia. Più lo diventa, più le nostre società si spostano da convivenze civili a stati di polizia.

Di recente c’è un grande dibattito su come comportarsi nei confronti di chi – dalle persone intorno a noi ad alcune classi dirigenti contemporanee – rifiuta i principi della ragione, della scienza, della logica, dell’informazione adeguata, del rispetto del prossimo, cose che ritenevamo e molti di noi tuttora ritengono indiscutibili, e su cui fondiamo la stessa educazione scolastica, quella per definizione: e una scuola di pensiero sempre più estesa va predicando che debba prevalere a un certo punto la repressione, “contro certa gente”. Sono molto incline a pensare che alla legittimazione di questo approccio concorra il suo essere facile, pigro, ed egosoddisfacente. Ma a parte questo, contiene uno sdoganamento della repressione come prima scelta, come metodo – poliziesco – che non interviene più a rimediare a una quota di fallimento dell’educazione, dopo che l’educazione abbia fallito in tutti i modi a sua disposizione e con tutto l’impegno necessario. Ma diventa la scelta prioritaria: ed è una tentazione che ha ampie zone di sovrapposizione con la storica inclinazione umana a creare nemici, avversari, capri espiatori. “Sorvegliare e punire” ci viene più facile che non insegnare e convincere (o farsi convincere): e ci sono politici, giornali, e cercatori di consenso che ci costruiscono piccole e grandi fortune, sul desiderio di repressione piuttosto che sul bisogno di educazione (ci sono persino gli odiatori degli odiatori, ormai; e uno che ha avvilito “ama il tuo prossimo” sostenendo che la sua implicazione sia “non amare il tuo diverso”). Crearci comunità sempre più piccole, minoranze autocompiaciute, in guerra contro grandi nemici esterni, è più consolante e facile (anche a sinistra) che allargare quelle comunità e sentirsi parte di qualcosa di meno esclusivo e speciale ma straordinariamente più proficuo e prezioso – a saper sollevare lo sguardo – come è una grande maggioranza solidale sui principi e sulle regole.

Nelle grandi e nelle piccole cose – pensate alle ronde grammaticali manganellanti che imperversano online – stiamo creando un mondo di guardie e ladri (spesso le stesse persone si comportano da entrambi), dimenticandoci che quello era un gioco da bambini divertente perché le pensavamo figure eccezionali: e che l’idea sarebbe che il 99% di noi non sia né ladro né guardia. E sia contento di non esserlo e non doverlo essere.
L’idea. Sarebbe.

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