Un saggio sull’aria che tira tra le persone e le società di questi tempi che si chiama Nervous States è uscito lo scorso autunno nel Regno Unito (esce a fine aprile per Einaudi in italiano): lo ha scritto uno studioso di politica e sociologia che si chiama William Davies, e parla di “come le emozioni si sono impossessate del mondo”. Davies usa come incipit il racconto dei minuti di panico intorno alla stazione della metropolitana di Oxford Circus, a Londra, nel 2017. Ci furono tweet e messaggi che parlarono di spari e di attentati, e persino siti di giornali e news che li confermarono, e per un po’ ci fu un allarme che da quelle strade riverberò in mezzo mondo. In realtà non era successo niente, o quasi: due passeggeri della metro avevano litigato dopo essersi urtati e si erano azzuffati, la gente intorno si era ritirata bruscamente provocando – un batter d’ali di farfalla – onde che erano diventate spari e attentati appena pochi metri dopo e poi sui siti di news di mezzo mondo.
Il panico è sempre esistito e anche i disastri provocati da una poco lucida gestione del panico: l’elemento in più in quella storia è che non solo ci sono stati paura e feriti per la calca, ma che nel giro di pochissimo il mondo intero ha costruito l’allarme di un attentato terroristico, ed era un litigio sulla banchina. E quella storia non solo è una buona introduzione per le riflessioni di Davies, ma è anche un’allegoria di come viviamo quotidianamente: sempre in allarme, sempre pronti a reagire, sempre pronti a condividere e propagare allarme e paura, spesso senza però avere la consapevolezza di quali siano le cause immediate di allarme e paura, del pericolo. Reagiamo a ogni litigio da banchina della metro come se fosse un attentato terroristico, a ogni battuta come se fosse un’aggressione fisica, a ogni frase spensierata come se fosse la fine del mondo (spensierata e fine del mondo da intendersi nel loro significato letterale). Vediamo allarme, assorbiamo allarme, ripetiamo e condividiamo allarme. Poi c’è sempre qualcuno che alimenta e usa tutto questo deliberatamente, lo suggerisce anche Davies, per ottenere consenso e fiducia: primi tra tutti alcuni politici e alcuni mezzi di informazione. Ma non puntiamo il dito altrove per la centesima volta, siamo noi a essere insicuri e spaventati, ed esageratamente suscettibili. Con la conseguenza – come nelle situazioni di panico, come a Oxford Circus – di diventare noi stessi il pericolo.
On a late Friday afternoon in November last year, police were called to London’s Oxford Circus for reasons described as “terror-related”. Oxford Circus underground station was evacuated, producing a crush of people as they made for the exits. Reports circulated of shots being fired, and photos and video appeared online of crowds fleeing the area, with heavily armed police officers heading in the opposite direction. Amid the panic, it was unclear where exactly the threat was emanating from, or whether there might be a number of attacks going on simultaneously, as had occurred in Paris two years earlier. Armed police stormed Selfridges department store, while shoppers were instructed to evacuate the building. Inside the shop at the time was the pop star Olly Murs, who tweeted to nearly 8 million followers: “Fuck everyone get out of Selfridge now gun shots!!” As shoppers in the store made for the exits, others were rushing in at the same time, producing a stampede.
Smartphones and social media meant that this whole event was recorded, shared and discussed in real time. The police attempted to quell the panic using their own Twitter feed, but this was more than offset by the sense of alarm that was engulfing other observers. Far-right campaigner Tommy Robinson tweeted that this “looks like another jihad attack in London”. The Daily Mail unearthed an innocent tweet from 10 days earlier, which had described a “lorry stopped on a pavement in Oxford Street”, and used this as a basis on which to tweet “Gunshots fired” as armed police officers surrounded Oxford Circus station after “lorry ploughs into pedestrians”. The media were not so much reporting facts, as serving to synchronise attention and emotion across a watching public.