Nel 1979 l’Electric Light Orchestra era due cose alternative, per noi teenagers italiani: due o tre stupende canzonette allegre o svenevoli per alcuni aperti di vedute; una cosa inascoltabile per altri duri e puri del rock o della musica “di qualità”. La seconda fazione sarebbe rimasta sempre forte, malgrado in questo millennio la band abbia avuto ripetute e pubbliche rivalutazioni e celebrazioni (vedi anche solo quanto le debbano i Daft Punk).
Invece, noi della prima fazione allora sapevamo “Telephone line”, “Mr. Blue Sky” e poco più. Più tardi avremmo scoperto tutto il formidabile doppio Out of the blue (dove c’era “It’s over“) e formulato questa sintesi in Playlist.
Fenomeno musical-circense di grandissima fantasia melodica, l’ELO fu praticamente inventata e tenuta in vita solo da Jeff Lynne attraverso molti cambi di formazione. Imparagonabile a qualsiasi altra cosa per l’attitudine all’uso di archi e orchestre e per il debole verso i contenuti astrospaziali, è sempre stata vista come una roba troppo svenevole dai critici e dagli amanti del rock. Ma a un naso libero da pregiudizi e sostanze tossiche hanno dato canzoni da stare allegri per una vita intera.
Invece, tornando al 31 maggio 1979, quel giorno lì uscì Discovery: quarant’anni fa. Divenne il disco del successo planetario dell’Electric Light Orchestra, con una serie di singoli a intasare le radio e i jukebox: “Last train to london” su tutti. Erano gli ultimi mesi prima che arrivasse MTV e tutto il baraccone sintetico/spensierato/patinato della musica anni Ottanta, ma l’Electric Light Orchestra c’era già dentro, in un suo modo Settanta. Adesso li sentite in qualsiasi negozio vintage o locale hipster di ventenni londinese.