Manipolatori scarsi

Solo una breve stroncatura per punti di quel documentario su Netflix che si chiama The great hack, dedicato al caso di Cambridge Analytica.
1. L’approccio manipolatorio nei documentari è una cosa ormai di lunga data e ha tra i suoi più famosi interpreti Michael Moore: il suo risultato è che si chiamano “documentari” e sono in realtà un formato di eccezionale parzialità e “a tesi”. La cosa è particolarmente irritante quando per rafforzare la tesi – come in questo caso – tutto quello che si sa fare è imbottire la storia di primi piani dei protagonisti “buoni” che commentano “incredibile!”, “pazzesco”, fanno le facce e si mostrano indignati. Finisci per sottolineare la povertà del tuo argomento invece che arricchirlo.
2. L’autocompiacimento dei propri primi piani è particolarmente ridicolo quando non sei George Clooney ma neanche Michael Moore. Finisce che i presunti “buoni” nella loro sovreccitazione sono più mediocri e imbarazzanti dei cattivi, che almeno a momenti hanno quella grandezza dei gangster. Quando si trabocca nel fanatico esaltato, si rischia di inquietare più del delinquente consapevole.
3. Fare un documentario che accusa imprese digitali piccole e grandi di manipolare le opinioni degli utenti, e farlo cercando di manipolare palesemente le opinioni degli spettatori, rende ridicolo il tentativo (soprattutto in tutte le riprese che fingono naturalezza e presa diretta, recitate). Come si fa a criticare la propaganda con un prodotto di propaganda?
4. L’unica cosa buona che si poteva fare con un “documentario”, ovvero spiegare le cose a chi non le ha ancora capite, è fatto poco e malissimo. Nella pratica, il percorso, la natura e gli utilizzi dei dati in questione rimangono abbozzati e allusi.

Tutto per dire che il tema è così grosso e importante che merita – e permette – argomenti e discussioni serie e approfondite, e questa è un’occasione buttata via. Il tema è un tema culturale e di educazione, e qui è trasformato in una battaglia sfigata impossibile da vincere.
E poi, a margine, per dire anche che la bulimia di documentari di Netflix produce ormai continuamente cose tirate faticosamente in lungo e diluite mortalmente anche quando una storia ci sarebbe, solo che bisogna farla durare di più: e quindi tutti parlano solo con lunghe pause inutili, ci sono primi piani di silenzi sterminati, e ripetizioni continue di concetti già passati. Poi dice come mai ci buttiamo sulle fiction coi mostri e le macchine del tempo.

Perhaps “The Great Hack” is the documentary the Facebook era deserves. Like an argument on the social network, it is tedious, seemingly complicated but intellectually underdeveloped, crammed with false facts and exaggerated statistics and features several blowhards who veer between self-righteous and self-congratulatory. Like one of those arguments, nobody comes out looking good in the end.

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