Quando qualcuno decide che qualcun altro meriti una statua, fa un’operazione di enorme semplificazione: decide cioè di prendere la complessità e varietà di una vita piena di accadimenti, sfumature, contraddizioni, cambiamenti, che a loro volta saranno analizzati, giudicati, considerati in modi diversi al cambiare dei tempi, e farne un tutto sommato piccolo oggetto statico e rigido dal significato astratto per celebrare uno o qualcuno di tutti quegli aspetti parziali. Ovvero di farne un simbolo, che per definizione è un simbolo, come il tricolore lo è per la millenaria storia dei popoli di una enorme penisola, o il pallino in alto lo è per la temperatura, eccetera. I simboli servono a indicare rapidamente e facilmente una cosa: sono un sacrificio, un compromesso, una scorciatoia. Meno si usano, per questo, meglio è: ma hanno delle loro utilità, e le nostre culture e psicologie ne hanno bisogno.
Le statue, altrimenti, sarebbe proprio meglio non farle. Le vite di molte persone hanno cose nobili ed eccezionali che è giusto considerare tali e ammirare, ma lo si può fare tranquillamente e meglio senza statue: quelle persone non ne hanno bisogno – sono morte – e le statue servono in modesta parte a tramandare degli esempi e dei modelli in maniera sbrigativa ed efficace. Ovvero dire a tutti “questa cosa che questa persona ha fatto è una cosa buona, da imitare e prendere a modello”: allo stesso modo con cui lo può fare in maniera più approfondita e meno efficace un libro, un insegnamento scolastico, o la sua stessa opera palesemente ammirevole. Le statue sono una forma di informazione, ma straordinariamente superficiale e pigra. Sono anche una rivendicazione, un’esibizione di appartenenza, per alcuni: poter segnare un punto per quello che la statua rappresenta, spesso in contrapposizione ad altro – una conquista patriottica, una grandezza scientifica, una bravura letteraria – e che si condivide. Ma queste sono inclinazioni che sarebbe utile disincentivare invece che incentivare, quelle di usare ogni cosa per segnare un punto per sé e per il proprio apparato di espressioni di sé.
Insomma, le statue non sono del tutto inutili: raccontano e tramandano delle informazioni e dei messaggi, a patto che siamo consapevoli che sono informazioni e messaggi limitatissimi e superficiali. Se le facciamo diventare persone, vite, storie, prendono complessità che non possono conoscere sintesi e giudizi unici: non si può fare una “classifica delle persone” che stabilisca in termini assoluti e schematici – fuori dai meccanismi di simpatia e affinità soggettivi – chi sia da statua e chi no. Lo diciamo da sempre a proposito delle pagelle scolastiche coi voti, quando ricordiamo che non possono raccontare e descrivere un ragazzo: e sono già diversi voti, non uno solo. Le vite, sono un’altra cosa.
Siamo capaci, di avere questa consapevolezza e riconoscere cosa significa e cosa racconta ciascuna statua, e cosa non significa e non racconta? A volte sì, e quando qualcuno propone o decide una statua di una persona per noi meno meritevole di altre, portiamo pazienza e riconosciamo che ci possano essere altri criteri, altri giudizi, singoli aspetti più privilegiati, volontà altrui rispettabili. Altre volte no, e infatti ci sono spesso discussioni e polemiche intorno alla scelta di una nuova statua, o del nome di una via, o di una lapide commemorativa. Che alla fine si risolvono – è il modo in cui abbiamo deciso di convivere – in decisioni democratiche: come per tante altre cose, i rappresentanti che abbiamo eletto decidono secondo le loro maggioranze.
Rimuovere una statua perché si ritiene dia un’informazione sbagliata può essere una decisione saggia: ma per come funzionano democrazie e regole, la si prende in modi democratici e secondo le regole. Perché chi altro può decidere che quell’informazione sia sbagliata, se non una volontà popolare democratica, espressa attraverso le regole della rappresentanza? Se i singoli si potessero attribuire il diritto di rovinare, demolire, abbattere, quale regola indicherebbe cos’è che si può rovinare, demolire, abbattere? Come protestare nei confronti di vandalismi contro certe lapidi o memoriali, quando si legittimano altri vandalismi contro altre lapidi o memoriali? “È diverso, questo è buono, e quello è cattivo”, ribattono alcuni: che è quello che dice e pensa qualunque vandalo, nel suo caso.
Ci sono situazioni in cui l’accantonamento della ragionevolezza e l’indulgenza per reazioni emotive e liberatorie possono essere più comprensibili, naturalmente: tra i perseguitati da una lunga dittatura appena abbattuta, tra le vittime che hanno subito personalmente traumi e crimini di cui sia colpevole la persona simboleggiata nella statua. Ma dentro democrazie progredite in cui persone evolute e consapevoli si impegnano per il rispetto di diritti condivisi ma non abbastanza applicati, i modi di ottenere ciò che è giusto si rivolgono a progressi concreti e reali, non all’abbattimento sterile dei simboli, tutto simbolico a sua volta. Tutte le “battaglie” condotte a forza di simboli contro simboli, di slogan contro slogan, di parole d’ordine contro parole d’ordine, nascono male e finiscono male: sicuramente diventano ancora di più “battaglie” in cui sconfiggere nemici e segnare fragili punti piuttosto che un lavoro di educazione e proselitismo che in una democrazia consenta di ottenere risultati condivisi e duraturi, sia come regole che come cultura. Non credo che nessuno dei tanti risultati in termini di diritti ottenuti nella nostra democrazia, per esempio, in 75 anni, sia stato aiutato dall’abbattimento o dalla rimozione di qualche statua.
Non ci possono essere delle regole universali per il “diritto alla statua”, per le ragioni che dicevamo prima. In Ghana hanno rimosso una statua di Gandhi perché era razzista; negli Stati Uniti qualcuno ha contestato una statua a Martin Luther King perché ricostruzioni indiziarie lo sospettano di indulgenza verso la violenza sessuale o verso le prevaricazioni maschili sulle donne; ci sono stati in questi giorni attacchi contro le statue di personaggi riconosciuti come “monumentali” come Cristoforo Colombo o Winston Churchill; grandi sportivi di cui esistono ed esisteranno statue hanno nelle loro biografie passaggi probabilmente o sicuramente condannabili, e pure molto recenti. Non parliamo di cosa possano raccontare e rappresentare i nomi di certe vie, che in realtà si sedimentano nelle culture molto più di certe statue. In tutti questi casi c’è molto di opinabile, molto di discrezionale, e tre cose da avere presenti: che attaccare una statua è uno sfogo, prepotente (come ciò che attacca? Appunto) e che non aiuta una causa; che una statua non è una persona, non è la sua vita, non è tutto ciò che è stato, è il simbolo di un aspetto; che la celebrazione e la narrazione di quell’aspetto, o la sua rimozione, devono essere avallate democraticamente. Poi, più riusciamo a farne a meno, di statue, odio per le statue, di simboli e compagnia, meglio è. Non fiori, ma opere di bene, come si dice.