La vecchia e mai vecchia storia di Moneyball

In questi giorni in tanti stanno vedendo e rivedendo Moneyball, che è arrivato su Netflix, e se ne è riparlato. Al Post è stato a lungo un tormentone che ho inflitto a molti in redazione e fuori, un po’ perché è un gran film, un po’ perché è di Aaron Sorkin, un po’ perché parla di baseball e un po’ perché parla di rivoluzioni anche in altri contesti in cui sono benvenute, e lo avevo spiegato allora in un intervento pubblico che Linkiesta ebbe la bontà di pubblicare. Questa era la parte su Moneyball.

Qualche mese fa, come immagino e spero molti di voi, ho visto questo film che si chiama Moneyball. È un bel film americano che parla di baseball ma neanche tanto: racconta molte cose, e alcune molto interessanti per noi, e di rivoluzioni. La storia è questa, e ora invito ad allontanarsi anche tutti quelli con l’ansia da spoiler, visto che intendo riassumerlo dall’inizio alla fine. E l’altra cosa di cui vi devo avvertire è che nell’allegoria che sto costruendo, io – e i miei colleghi in cerca di progetti nuovi – sono interpretato da Brad Pitt e questo potrebbe renderla meno credibile, comprensibilmente. Ma fate uno sforzo di immaginazione.

C’è una squadra di baseball di Oakland, gli Athletics, che gioca nel massimo campionato e ha appena disputato un’ottima stagione, ma alla fine ha perso ai playoff perché ci sono sempre squadre più grandi e più ricche con cui non può competere. Il manager della squadra, che ha una storia di giovane promessa fallita da giocatore, e che sa che nel baseball viene ricordato solo chi vince, va desolato dal proprietario della squadra e gli chiede più soldi e giocatori più forti. È stufo di non poter mai competere davvero e che tutti buoni giocatori che alleva giovani e fa diventare campioni poi glieli comprino le squadre ricche. Il proprietario non glieli dà, i soldi.

Lui allora si dispone a un’altra stagione messa insieme faticosamente cercando di cavarne qualcosa quando incontra un giovane economista uscito da Yale, molto geek e un po’ goffo come immaginiamo questi personaggi, che gli spiega che il segreto delle buone scelte nel baseball è nello studio scientifico dei numeri e delle statistiche, che possono suggerire la forza in giocatori che tutti gli altri trascurano: perché lo sport è dominato da vecchi modelli che basano tutte le scelte su criteri antichi e mai ripensati, per la forza dell’abitudine e della tradizione. Con la sventatezza della disperazione il manager lo arruola e comincia a costruire una nuova squadra come gli suggerisce il ragazzo, litigando con tutti i talent scout e con l’allenatore della squadra. Il quale gli rema contro, non fa giocare gli uomini nuovi come dovrebbero – uno è vecchio, uno ha avuto un incidente, ma tutti hanno delle doti che possono essere usate bene – e la squadra perde e perde, e tutto il campionato punta il dito contro le sventatezze della sua campagna acquisti.

Fino a che lui fa un colpo di mano, vende i giocatori più famosi e costringe l’allenatore a giocare a modo suo. E la squadra vince. E vince, e vince, e vince. Guardate che è una storia vera, del 2002, già leggendaria nel baseball americano. Vince e vince ancora e riesce, nell’eccitazione e meraviglia nazionali, a battere il record di sempre di vittorie consecutive. Arriva così ai playoff: ma qui incontra una squadra grande, ricca e forte, e perde. E lui, mentre tutti gli dicono bravo, hai fatto cose meravigliose, è deluso e incazzato. Voleva vincere, se non vinci non esisti.

Nell’epilogo, Boston, squadra grandissima e titolata, gli offre un contratto mai visto per andare a lavorare da loro, ma lui rifiuta. Vuole vincere a Oakland, con quella squadra. E i titoli di coda ci dicono che è ancora lì che cerca di vincere, e che nel frattempo le loro intuizioni sulla scelta dei giocatori sono state assunte da tutte le grandi squadre e che Boston con quelle intuizioni è riuscita a vincerci il campionato dopo decenni. È un film che dice che si possono fare rivoluzioni e vincere, ma fino a un certo punto: poi se la tua rivoluzione non è forte abbastanza o non si allea con l’esistente, il tuo potenziale rivoluzionario viene in parte sconfitto e in parte assorbito.

Ok, adesso pensate a chi cerca di costruire nuovi progetti di informazione online in un mondo che cambia, e ve la racconto di nuovo. C’è un contesto generale vecchio e governato da meccanismi antichi e pigri e da protagonisti che non hanno nessuna intenzione di rivederli, ma che hanno risorse e soldi per vincere. Arriva una squadra nuova che non ha le risorse ma intuisce con studi scientifici e competenze moderne che si può essere competitivi a costi minori, grazie alla rete, grazie alla disponibilità dei contenuti, grazie all’aggregazione, grazie al know-how su tutto questo. E gioca il campionato, e nel suo piccolo vince: nel senso che esiste, occupa uno spazio, guadagna numeri, viene riconosciuta e compete con altre squadre titolate. E questo è il punto del film a cui siamo arrivati.

La cosa che in molti in tutto il mondo stiamo cercando di capire è se la rivoluzione è forte abbastanza da farcela fino alla fine e vincere – la sopravvivenza di cui parla Nicola Bruno, e continuare a giocare nel campionato con i grandi – oppure no. Una cosa vi posso dire: è la prima volta da tanto che fare i giornalisti significa una cosa completamente diversa dal replicare i modi in cui lo facevano quelli prima di noi, la prima volta in cui c’è tanto spazio per inventarsi delle cose. Chissà quante falliranno, forse persino tutte, e magari il nuovo giornalismo di successo non esisterà: ma come si sa, la parte bella della caccia al tesoro è la caccia, non il tesoro.

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