Quel partito

Ogni tanto qualcuno parla del PD, e genera un po’ di scompiglio, perché non si è mai visto un periodo della storia politica italiana in cui se ne parlasse così poco: in cui il dibattito sul partito – e nel partito – più importante della sinistra fosse così accantonato e silenzioso.
Attenzione, non sto esponendo una critica – lo dico subito per i polemici – ma una considerazione da cui mi sembra impossibile dissentire, anche per i polemici. E che potrebbe anche essere letta positivamente, anzi.

Il partito dei litigi, delle divisioni, delle correnti, che a un tratto smette di dividersi, in cui spariscono le correnti, in cui non si discute più di niente e nessuno prende iniziative personali o butta lì dichiarazioni di dissenso che i giornali trasformano in zizzania, beh, non è quello che hanno sempre chiesto elettori e militanti che si sono tanto lamentati di quelle cose lì, del partito diviso su tutto?

Come sia successo, è un’analisi complessa: al volo ci metterei una inclinazione sfuggente dell’attuale segretario (l’unica volta che è uscito per un aperitivo, guarda com’è finita), la batosta renziana che ha spaventato e rintanato tutti i leader fino a quel momento “vivaci”, l’uscita dei soli due rimasti “vivaci”, il coronavirus inaffrontabile che ha suggerito di stare schisci su tutto e lasciare il cerino al presidente del Consiglio (che se lo è preso con simmetrica soddisfazione).

Ma insomma, come ha commentato ieri Isaia Invernizzi – giornalista dell’Eco di Bergamo che ha ottenuto una meritata notorietà nelle scorse settimane per il suo lavoro sull’epidemia – è difficile in questo momento vedere nel PD “un partito e una leadership” come eravamo abituati a vederli nei decenni finora.

Ripeto – per i polemici – che potrebbe non essere un male. Il segretario conduce da un anno – per scelta tattica che coincide con un’inclinazione umana – la strategia dell’opossum: fingersi morto, quando ci sono pericoli intorno. E mai come in quest’anno ci sono stati pericoli intorno, da un’alleanza di governo tra i nemici peggiori, a un’alleanza di governo coi nemici quasi peggiori, a un governo travolto da una pandemia e con gli inetti. La strategia dell’opossum ha un senso non stupido, in tempi di eccitata polemica e critica popolare contro chiunque abbia visibilità o passi a tiro, e di dibattito fatto di stroncature e aggressioni piuttosto che di costruzione e condivisione: meno cose dici e fai e meno ti attaccano, meno rischi corri. Un partito in quarantena domestica, con la mascherina. Vale per il giudizio degli elettori, ma gli stessi media idrofobi della destra fanno un po’ fatica col PD e Zingaretti, e sono costretti da mesi ad attribuire le cose più esotiche e balenghe a una presunta “sinistra” oppure a prendersela genericamente col governo sostenuto dal PD. E i sondaggi – per quel che valgono – sembrano dimostrare se non dei successi (no, successi no) almeno un’interruzione delle perdite.

Insomma, la strategia dell’opossum un po’ funziona, in termini di consenso: lo spettacolo desolante degli altri potrebbe portare qualcuno a riavvicinarsi a un PD “che non dà fastidio, non sporca”, se quel qualcuno si ricorda della sua esistenza. In assenza di idee, di progetti, di passione e speranza per un cambiamento a lungo termine, in tempi di rassegnazione e ricerca di motivazioni fuori dalla politica, può avere senso: diventare una specie di Democrazia Cristiana di sinistra, un partito senza identità e aggregante il più possibile; anche se non mi pare ci sia un vero impegno nemmeno in quella direzione, e le defezioni dei “vivaci” dimostrano che non è l’indole dei progressisti, quella di occuparsi d’altro e votare compatti.

Insomma, il partito che si è alleato con gli incapaci perché non lo facessero i teppisti, ora si è liberato di idee, progetti, identità e ambizioni perché non diventino un rischio. L’ultima volta che ha fatto progetti si è sbriciolato, in effetti, e ora raccoglie i cocci senza avere idea di come incollarli. E può darsi abbia ragione a vivere nel presente e nel passare le giornate, lo dico senza ironia, e che al futuro ci si debba pensare in altri tempi: in un qualche futuro.

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