A parte tutte le altre cose che hanno reso eccezionale il passaggio di Maradona sulla scena di cui tanti di noi erano pubblico, e delle cui cose si è detto e si dirà ancora molto, ho cercato di ricostruire qual è che più ha commosso me, in quegli anni là e con gli strascichi che sono proseguiti fino a stasera. E credo che fosse la sintesi di bellezza e spavalderia di quello che faceva: il mio “oooh” ogni volta che lo rivedo è incredulo ogni volta per lo spettacolo e per la naturalezza con cui giocava, che non doveva dimostrare niente. Era già tutto lì. E di nuovo mi fa quell’effetto, stasera, e di nuovo mi ricordo cose che sono state letteralmente emozionanti e hanno messo della bellezza in quel passaggio. Recupero ricordi da vecchi post e li incollo in fila, l’unica cerimonia che posso mettere insieme.
Odio l’Argentina. Odiavo l’Argentina, anzi, dall’estate del 1978. Il paese era massacrato dalla dittatura militare, le persone assassinate e fatte sparire. Ma non era per quello: io odiavo l’Argentina per come si era portata a casa la Coppa del Mondo, pestando l’Olanda di Krol che già era stata rapinata dalla Germania quattro anni prima. Erano ventiquattro anni che odiavo l’Argentina – malgrado mi commuova ancora a vedere i vecchi filmati di Diego – quando ho smesso, e ora ne vado matto.
Nel 1988 io e i miei amici di allora frequentavamo spesso il casale di campagna della famiglia di uno di loro, vicino alla strada che collega Pisa e Lucca: ci andavamo soprattutto a passare le domeniche, e ci andammo anche il primo maggio, che pure era una domenica. Sono passati quasi 23 anni e io ho una memoria che fa spesso schifo, ma mi ricordo esattamente alcuni dettagli e sensazioni di quel pomeriggio. Il mio amico aveva comprato dalle ferrovie dello stato diverse decine di traversine dismesse da usare per sistemare il terreno intorno al casale: farne palizzate, panche, tavoli, non mi ricordo che altro. Ma quel primo maggio erano state consegnate da poco e stavano ammucchiate in grandi cataste disordinate in mezzo al prato.
Quello che mi ricordo come fosse ora è di essere seduto in cima a una di queste cataste, con la radio brionvega rossa (che era stata di mio nonno prima che la riempissi di sabbia sulle spiagge pisane e in altre trasferte) sulle ginocchia, accesa a sentire Tutto il calcio minuto per minuto. Era la terzultima giornata di campionato. L’anno prima, la squadra che mi ero scelto in periodi sfigati aveva vinto il suo primo scudetto, reso ancora più esaltante dallo spettacolo del più grande giocatore di tutti i tempi. E adesso era ancora prima, ma aveva dilapidato un vantaggio di sei punti sul Milan, che era diventato di uno solo. E insomma quel primo maggio si gioca Napoli-Milan, e si risolve la questione. E fu un massacro. Il Milan andò avanti per 3 a 1, e a dodici minuti dalla fine segnò Careca.
Ecco, quei dodici minuti io me li sento nelle ossa, mi sento il culo sulle traversine, mi sento la maniglia del brionvega in mano, mi sento gli sguardi dei miei amici meno interessati – juventini e interisti, per lo più – da sotto la catasta. Non successe più niente. Finì 3 a 2 per il Milan, e il Napoli scoppiò, perdendo le due partite successive e il campionato. Nei quattro anni intorno a quel 1988, il Napoli arrivò due volte primo e due volte secondo, e non ci si sarebbe avvicinato mai più. Nei dodici successivi il Milan avrebbe vinto il campionato sei volte.
E sono cambiate parecchie cose, e nessuna vittoria del Napoli di oggi – che pure mi mette di buonumore almeno fino al lunedì pomeriggio – mi emoziona quanto rivedere un qualunque gol di Diego Armando Maradona di allora. Ma restiamo fiduciosi.
Quando uno va a Napoli deve stare sempre attento a non fare la figura del turista che trova tutto molto napoletano. Epperò a Napoli è anche tutto molto napoletano. Comunque, vi racconto questa. C’è un bar, ci ero stato altre volte, che espone fuori la reliquia del “capello di Maradona”. Gli faccio la foto rituale e siccome sotto c’è un creativo messaggio che chiede il pizzo di un caffè sulla foto, entro a prendere un caffè. Dentro al bar echeggia la telecronaca di una partita, ma sono le 10 del mattino. E il telecronista nomina Pirlo, e poi Del Piero. Dopo poco capisco che è Italia-Germania dei mondiali 2006, e immagino sia un’idea di colore del bar, farla sentire ai clienti. Invece no: il signore alla cassa sta proprio guardando rapito la partita su un computer portatile. Quando vado a pagare il caffè (ci metto un po’ perché il signore non mi nota, assorto nella visione), incuriosito, per scherzo gli dico: «Non l’aveva mai vista?». Lui solleva lo sguardo dalle monete del resto, e con un’espressione di grande dolcezza e l’accento napoletano che non posso trascrivere, fa: «La guardo ogni giorno».
In tema di supereroi la mia linea è quella del bambino di Napoli che ha scritto “Maradona, anche se io non l’ho conosciuto, non è un personaggio inventato, come Re Artù o l’Uomo Ragno. Maradona è veramente esistito, ed esiste ancora!”.
La prima volta che vidi giocare l’Olanda avevo nove anni. Erano fighissimi, avevano le maglie arancioni, erano sfavoriti, giocavano meravigliosamente. Cruyff era di un’eleganza che non si è più vista. Erano, da quel momento, la mia squadra. Nel secondo turno di quei mondiali avevano dato 4-0 all’Argentina e 2-0 al Brasile. In tutto il mondiale avevano lasciato solo un punto alla Svezia. Era un campionato di squadre fortissime, c’era la Polonia di Lato, Deyna e Szarmach (fecero 15 gol in tre) che arrivò terza battendo il Brasile di Jairzinho e Rivelino.
La prima volta che vidi giocare l’Olanda però, che mi ricordi, fu solo in finale. Contro la Germania padrona di casa: Beckenbauer, Müller, Hoeness, Breitner. Schwarzenbeck. Erano fortissimi. Ai miei occhi di novenne erano odiosi. Erano tedeschi. Avevano le maglie bianche. E ai miei occhi poco obiettivi di novenne che aveva appena trovato la sua squadra, erano orrendamente favoriti dall’arbitro.
Vinse la Germania 2-1, derubando la mia squadra di quel che meritava.
Ai mondiali successivi avevo tredici anni. Di quelli mi ricordo ogni partita. La mia squadra andò al secondo turno malamente, un po’ all’italiana. Erano sempre bellissimi, ma alcuni dei più grandi non c’erano più. Al secondo turno ribaltarono la partita con l’Italia coi famosi due gol che Dino Zoff non vide neanche partire, pareggiarono con la Germania e arrivarono di nuovo in finale. Di nuovo con i padroni di casa, argentini.
Gli argentini non erano odiosi, ai miei occhi di tredicenne: erano peggio. Menavano come fabbri noialtri che eravamo dei fighetti, e quando ai supplementari furono aiutati abbastanza da andare in vantaggio cominciarono a perdere tempo così spettacolarmente che il mio giovane e candido senso della giustizia ne fu scosso per sempre. Ed ero grande abbastanza per sapere che erano la squadra di un paese governato da assassini.
La mia squadra fu derubata una seconda volta.
Due anni dopo, il Napoli comprò Ruud Krol, che aveva già trentun anni ed era sempre sembrato il più autorevole e “grande” degli olandesi. Krol quindi veniva in Italia. Mi ricordo la copertina del Guerin Sportivo (direttore Italo Cucci). Il Napoli diventò la mia squadra (fino ad allora ero stato pigramente juventino, confesso: ma in provincia si era solo juventini o milanisti, allora).
Il Napoli di Krol arrivò straordinariamente terzo, ma la mia scelta si rivelò davvero fortunata e lungimirante negli anni successivi, i più emozionanti della mia vita di tifoso. Che capovolsero – assieme alla locale svolta democratica – i miei sentimenti per gli argentini. La mia squadra, in questi mondiali 2010, sono loro e ho per Diego la stessa irragionevole commozione e fratellanza che hanno i napoletani veri.
Però oggi l’Olanda gioca di nuovo col Brasile: sono tutt’altre squadre – soprattutto l’Olanda – però la prima volta che vidi giocare l’Olanda aveva appena battuto il Brasile – il 3 luglio del 1974 – e prima di allora non mi ero ancora mai emozionato a vedere il calcio in televisione.
“Quattordici anni dopo il doloroso addio, Napoli riabbraccia il proprio Re. Nella festa di Ciro Ferrara, Diego Armando Maradona torna al San Paolo e regala emozioni ancora più forti di quando il suo sinistro inventava traiettorie impossibili, incantava i portieri, i tifosi e non solo quelli del Napoli, una squadra, una città al quale l’ex Pibe de Oro ha regalato due storici scudetti e una Coppa Uefa. Maradona è stato l’idolo di tutti quelli che amano il calcio, ma per i napoletani è stato un vero e proprio Re, un grande amore che 14 anni fa fu costretto a scappare dall’Italia per la droga, l’unico avversario che Maradona non è riuscito a dribblare, ma che da più di un anno è uscito dalla sua vita. “Vedere Diego in queste condizioni è davvero splendido, se penso a come era prima mi vengono i brividi”, parole di Fabio Capello, uno che difficilmente si lascia prendere dalle emozioni. Ma oggi ognuno dei 70mila spettatori del San Paolo, ogni telespettatore che ha assistito al Ferrara Day in tv, avrà avuto il magone nell’assistere al giro di campo di Maradona e nell’ascoltare l’incredibile boato che lo stadio ha riservato al suo Re.
“Diego The King” c’era scritto in uno striscione che occupava tutta la curva e che è stato esposto al giro di campo di Diego, anche Maradona, in ottima forma e dimagrito di almeno una quarantina di chili, aveva le lacrime agli occhi.”
Questo era un articolo di Repubblica del 2005: mi ricordo bene che, mentre lo leggevo, da qualche playlist sul mio computer è uscita I’ll find a way, la canzone di Rachael Yamagata che dice
Troverò il modo, di rivederti ancora.