Cerchiamo di capirci

Condivido una riflessione un po’ lunga sulle scelte che si possono prendere se ti occupi di informare sulle cose e spiegarle, durante quest’anno complicato.
Durante quest’anno complicato ci si è accorti di più dell’esistenza di una zona grigia, incerta e complessa della realtà: ci si è accorti – chi legge i giornali online e offline e segue le notizie – che non tutto può essere ricondotto a vero o falso, a sicuro o inesistente, a importante o irrilevante. È una banalità da dire, per chi ci lavora: ma è una valutazione spesso trascurata da chi ne legge, e che ha spesso richieste categoriche nei confronti dell'”informazione”. E spesso l’informazione dà risposte categoriche, perpetuando questo modo schematico di pensare e di registrare i fatti e la realtà.

Quest’anno invece in tanti si sono accorti che le cose spesso sono complesse, dubbie, parzialmente vere e parzialmente chissà, possibili ma non certe, eccetera. E che queste distinzioni, queste sfumature, queste complessità, questi “dipende”, hanno ricadute sulle scelte, economie, vite di ognuno: è come se fino all’anno scorso potessimo permetterci di convivere maldestramente con l’idea che esistesse quello che veniva diffuso dai media e non esistesse quello che invece no; oppure con l’idea che ci fosse una cospicua quota di approssimazione (diciamo) in quello che leggevamo sui media, ma pazienza. Quest’anno invece la corrispondenza tra ciò che leggiamo o ascoltiamo e ciò che è la realtà conosciuta e comprensibile dei fatti, è diventata questione importantissima – di vita o di morte, persino, letteralmente – per tutti.

Il grosso dei mezzi di informazione si è mosso con difficoltà, spaesato, facendo fatica ad adeguarsi: il crescere del risentimento nei confronti di giornali e giornalisti quest’anno è stato piuttosto palese, e deriva dal fatto che non è più stato tollerato che ogni giorno venissero diffusi – ma coi consueti toni della certezza definitiva e dell’enfasi – pareri, ipotesi, previsioni in contraddizione tra loro, e in contraddizione con quelli che sarebbero stati diffusi il giorno dopo. Informazioni “possibili”, volatili, presentate prima come fatti e poi azzerate di continuo e rimpiazzate da altre con le stesse perentorie sicurezze e con le stesse enfasi di titolazione. Che è la norma, nell’informazione italiana: ma che in tempi duri è stata percepita di più dai lettori e meno tollerata.

Sono osservazioni e riflessioni che facciamo da mesi al Post, cercando di conseguenza una via diversa: che è stata soprattutto quella di filtrare ma anche quella di essere consapevoli che le zone grigie di incertezza ci sono e che il modo di affrontarle non può essere binario (“non-pubblico”/”pubblico-con-titolone”) ma deve prevedere un lavoro di contestualizzazione e descrizione del livello di incertezza e certezza di ogni cosa raccontata. Allineare i lettori con quello che sappiamo, ma anche con quello che non sappiamo. Che naturalmente scontenta molti lettori: tutti quanti preferiamo le cose chiare, le regole, le categorie, le visioni universali ed eterne.

Con quest’idea di avere individuato quindi una “misura” nel raccontare le cose – per quanto una misura bisognosa di rielaborazioni quotidiane e continue – mi sono domandato in questi giorni come mai abbiamo ancora difficoltà a fare alcune scelte e come mai questa misura non sia risolutiva. L’esempio è un tema che ci sembra molto interessante e rilevante, e di cui si è parlato molto nei primi mesi del lockdown, e che poi è stato accantonato con le sue incertezze apparentemente invariate: ovvero la trasmissibilità del contagio attraverso le “superfici” cosiddette, e quindi il tema delle grandi precauzioni che abbiamo da nove mesi rispetto a quello che tocchiamo, al lavarci le mani e sanificare e pulire tutto, eccetera. Ci era capitato in questi mesi di riparlarne e di notare come gli sviluppi nella comprensione sulla pericolosità del contagio da “contatto” (e poi da inalazione e respirazione, naturalmente) siano stati molto limitati nei mesi passati.
Una settimana fa è uscito un articolo sul New York Times che prova a fare un po’ il punto e – con grandi attenzioni – sostiene che la materia sia ancora molto oscura ma che alcuni studi fatti finora mostrino che la trasmissione del contagio è accertatamente “aerea” mentre i percorsi del contagio attraverso le superfici e le loro conseguenze sono tuttora molto da capire e confermare. Senza negarli, naturalmente, ma dicendo che c’è una sproporzione di accorgimenti e precauzioni rispetto ai due pericoli.
Io stesso sto cercando qui di sintetizzare stando molto attento a quello che dico: perché non so quello che dico, e perché la questione è delicatissima.

Per le stesse preoccupazioni, ci siamo chiesti al Post se riprendere questo articolo o no, per tornare a parlare di una cosa che è centrale nei comportamenti del mondo ma al tempo stesso poco capita e chiara. Abbiamo concluso che l’articolo e le fonti che cita non siano ancora sufficienti per fare un punto che non sia troppo limitato e parziale, rispetto alla delicatezza del tema. Abbiamo temuto il rischio di cui parlavo all’inizio di questo già lungo post: che una cosa molto incerta e che si cerca di mettere in qualche punto di una scala da zero a cento possa essere invece percepita in modo binario: zero o uno, sì o no, vero o falso. E abbiamo temuto di non essere in questo momento ancora in grado – per carenza di informazioni o inadeguatezza nostra – di metterla in un intorno affidabile collocato tra zero e cento.

Ho raccontato questa cosa perché al di là dell’esempio mi sono chiesto come si possa risolvere questo dubbio: non è di certo soddisfacente dover scegliere tra scrivere di una cosa in un modo che possa essere equivocato nella comprensione della realtà, oppure non scrivere di una cosa che esiste ed è importante. Tacere una cosa per timore “dell’effetto che fa” è una sconfitta, se il tuo lavoro è anche governare gli effetti delle cose che dici e scrivi.
Probabilmente in futuro ci torneremo, sulle superfici, stiamo cercando di avere più cose da dire. Ma a parte il caso singolare, la risposta che mi sono dato alla domanda di cui sopra è questa: bisogna tendere a una situazione in cui le cautele rispetto al rischio che quello che si scrive non venga capito siano sempre meno necessarie, e in cui se una cosa da zero a cento è 27 o 79, quello che arriva a chi legge sia proprio 27 o 79. Evitando che qualcuno tra chi legge traduca il 27 in zero o il 79 in uno.

L’unico modo per non essere costretti a tacere delle cose per paura che vengano equivocate e diventino pericolose è costruire le condizioni perché non vengano equivocate. Che è un lavoro che non riguarda solo un articolo. È un lavoro di rieducazione all’attenzione e alla complessità – rispetto allo schema binario che è nelle nostre teste e nelle nostre abitudini – che riguarda sia chi fa i giornali che chi li legge.

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