Quando ero bambino io, dal finestrino della macchina in autostrada vedevo – come milioni di italiani – queste grandi scritte EMOSCAMBIO, su costruzioni o pareti ai lati del percorso. Era un interessante mistero, per me e per molti: quando chiesi informazioni, tutto quello che ottenni fu l’etimologia del termine e conclusi che potesse essere una specie di benintenzionata “pubblicità progresso” per la donazione del sangue.
Era invece una stramba storia, raccontata spesso ancora negli anni recenti e con una sua voce su Wikipedia.
Emoscambio (dal greco αίμα – aima, sangue) era un meme diffuso, mediante scritte murali, da un gruppo fondato negli anni settanta da Vito Cosmaj (o Cosmai), un guru milanese che diffondeva inoltre volantini a nome di un autoproclamato “Istituto Italiano di Fisiologia”. Il gruppo era famoso per le scritte visibili su autostrade italiane, su viadotti e cascine, specie nell’Italia settentrionale.
Mi è tornato in mente leggendo il commento di oggi di Michele Serra alle vicende del “writer” che in questi anni si è firmato Geco, e che ora è finito nei guai, e ha molti critici e molti difensori: e dibattiti relativi. Serra sta nei critici, in effetti, ma con moderazione e con un argomento che mi pare interessante.
Ogni artista, a conti fatti, è uno che scrive “io”, proprio come fa Geco. Però conta molto il come. Anche Giotto e Caravaggio e Banksy, per dirne tre quasi a caso, hanno fatto notare di esserci, e di essere proprio loro, inconfondibili, riconoscibili da chiunque, gigantesche presenze. Gechi al cubo, gechi immensi. Però lo hanno fatto lasciando tracce nelle quali ognuno – ecco il punto – può identificarsi, emozionarsi, capire il mondo. […]
Invece se vedo Geco scritto su un muro, anzi su tutti i muri del mondo, penso solo che uno che si chiama Geco ha voluto ribadirlo all’infinito. A suo modo, è un privatizzatore di beni pubblici. Buon per lui, male per i beni demaniali e monumentali. Io non sono Geco, però. Io sono Giotto, Caravaggio, Banksy, nel senso che grazie alle loro opere mi conosco e mi riconosco. “Disegnami una pecora”, disse il Piccolo Principe a Saint-Exupéry. Ecco, Geco: disegnami una pecora.
Non so se mi convince del tutto il criterio di Serra: o meglio, il ragionamento sta in piedi e la differenza tra le due cose esiste, ma è anche vero che – soprattutto in questi decenni – l’affermazione di sé e la capacità di ottenerne successo e soddisfazioni sono diventate un tema che è molto condiviso e in cui molti si riconoscono. Senza nulla togliere alla qualità delle sue opere, Banksy è diventato Banksy inventando il personaggio Banksy, non disegnando bambine e palloncini. Quando Geco scrive “GECO”, nel compimento e nel risultato di quella opera si “identificano ed emozionano” molte persone, per usare le parole di Serra. Come dimostrano i molti interventi di suoi fans o estimatori di questi giorni. Un’opera non è solo quello che si vede, altrimenti i graffiti rupestri paleolitici sarebbero insignificanti e la merda d’artista solo una merda (in cui però molti si possono riconoscere, ammetto).
E questo non c’entra niente con la eventuale creatività, qualità o originalità dell’opera, o sulle loro assenze: però mi pare complichi un po’ il criterio di Michele Serra.