Cosa diremo

Nel suo appassionato e ammirevole discorso di oggi sull’impegno da mettere nel proteggersi dal contagio, Angela Merkel ha usato a un certo punto un’antica formulazione retorica a cui non siamo più abituati. È interessante, perché il problema delle formule retoriche solenni è che col tempo perdono significato e diventano vuote, persino poco tollerabili. Questa invece è così uscita dal nostro modo di pensare, che ora suona con uno straordinario e concretissimo significato, come se fosse riaffiorata da una memoria lontana.

Cosa diremo quando guarderemo indietro?

È una domanda meravigliosa, e commovente. Suona appunto familiare, un’espressione retorica sentita spesso, eppure realizziamo che non la sentiamo più: l’abbiamo sentita spesso in certi documentari, forse, o in certi film biografici. In certi libri di Storia, chissà. Ma nessun leader politico od oratore lo dice più.
Perché nessuno pensa più a guardare avanti, a quando ci si guarderà indietro.
Nessuno giudica più le fesserie, le volatilità, le pigrizie, i capricci, le sterilità di ogni nostra giornata, con la capacità di staccarsene e guardarle da lontano. Come dicevamo ieri, immaginate di giudicare le energie e l’impegno e lo stress spesi quest’anno, l’anno scorso, negli ultimi cinque anni, sei anni fa, nelle cose in cui li abbiamo spesi. Immaginate che qualcuno arrivi da quel tempo e ci chieda “ne valeva la pena? era davvero importante? cosa abbiamo ottenuto, poi?”. E chi si ricorda, con tutti i post su Facebook contro cui dobbiamo indignarci ogni giorno.
Certo, succedono buone cose e ognuno di noi ha le sue, private o pubbliche: e qualcuno può persino andarne fiero. Ma come stanno passando le giornate – le settimane, i mesi, gli anni – la nostra politica, il nostro dibattito pubblico, il nostro impegno, la storia di questo paese che siamo stati abituati a pensare come un progresso, finora? Cosa stiamo costruendo, cosa abbiamo costruito? Quanto resterà, cosa sarà cresciuto? Ci riguarda?

Cosa diremo quando guarderemo indietro?

Bella frase. Segnarsela, speechwriters.

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