Il passaggio più esteso alla politica “identitaria” di questi ultimi decenni (c’è sempre stata, certo, ma meno) normalmente viene criticato perché dare maggiore importanza – nelle proprie simpatie politiche – al senso di appartenenza piuttosto che ai contenuti determina una perdita di qualità dei contenuti stessi, e peggiora la politica e la vita comune. È abbastanza elementare, e appunto condiviso da molti e anche da molti di quelli che praticano l’appartenenza senza accorgersene o inconsapevolmente o nascondendoselo: le somiglianze con le tifoserie calcistiche ci sono, ma c’è anche la grossa differenza per cui mentre i tifosi rivendicano la cieca e fedele appartenenza come un valore giustamente insensibile a tutto (persino alle sconfitte: anzi, il tifo è il luogo dove sfoghiamo la nostra quota di sconfitte tollerabili), invece le tifoserie politiche non vogliono ammettere di esserlo e si costruiscono alibi e narrazioni di sostanza e razionalità, e argomenti che le confortino e motivino.
C’è però anche un secondo problema, complementare a quello dello scadimento della qualità delle proposte politiche (e quindi della vita civile) che ne derivano: ed è che diventa molto più difficile per le persone cambiare idea e opinione, e per i partiti e leader fargliela cambiare. Rivedere il proprio consenso, il proprio voto dell’ultima volta, in queste condizioni significa mettere in discussione se stessi e la propria stessa identità: un conto è studiare le proposte di volta in volta e applicare criteri duttili e distaccati, ma se invece sostieni Renzi, o Salvini, o Di Maio, o Berlusconi, o Meloni, nei termini in cui i leader sono stati “sostenuti” in questi anni, ma anche se sostieni delle campagne (sull’immigrazione, sul lavoro, sull’Europa, sui temi etici) come sono state sostenute in questi anni, con questo coinvolgimento personale sempre sopra le righe, allora valutare informazioni nuove, pareri diversi, conoscenze maggiori, per formare opinioni più vicine alle proprie idee di cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa utile e cosa no, implica sempre un tradimento di sé, un’ammissione di fallimento. L’unica eccezione che ci concediamo per abbandonare – nel caso dei leader – sono le sconfitte, che riteniamo inaccettabili per un politico; e quindi consideriamo quelle, il tradimento nei nostri confronti. Il leader perdente è l’unico che abbandoniamo, perché è lui che è cambiato, perdendo (salvo minoranze, per definizione, che trovano la propria identità proprio nel vittimismo della minoranza).
Ma tornando alla questione della raccolta di nuovo consenso, oggi per un partito progressista ottenere che un elettore o un’elettrice di centrodestra sposti le sue possibilità di voto non è tanto una questione di argomenti e di politiche convincenti, ma di comunicazioni che lo consentano senza implicare che tutto quello che lui o lei ha sostenuto finora fosse sbagliato: ovvero senza implicare che fossero sbagliati lui o lei. Per questo l’unica soluzione – pigra – di qualche successo finora è stata di avvicinarsi alle sue posizioni, piuttosto che di rendere convincenti le proprie. Vincerà, o vincerebbe, chi sappia attrarre l’elettore nuovo senza farlo sentire sbagliato e umiliato (l’implicazione è che siamo bambini capricciosi e insicuri? certo che lo è!): ma chissà se si riesce più a giocare due giochi contemporaneamente, quello attuale e uno nuovo.
L’anomalia delle fazioni calcistiche, se ci pensate – a differenza delle appartenenze religiose, o politiche – è che nessuno vuole fare proselitismo (anzi, l’esistenza dell’avversario è preziosa per il buon funzionamento del sistema): se però si travasano gli stessi approcci dove lo spostamento del consenso è essenziale – le democrazie -, e quegli approcci non prevedono il proselitismo, quello che avviene è inevitabilmente che siano costretti a cambiare idea i partiti (e a morire e rinascere spesso, anche), non potendolo più fare le persone.