Generazioni di fenomeni

Ho la gran fortuna da diversi anni di frequentare persone di età e generazioni diverse dalla mia, ma anche miei coetanei. E ho l’impressione che il senso di distanza tra le une e le altre – e a volte di sprezzo – sia aumentato ultimamente, ma naturalmente può benissimo essere che la variabile del mio, di invecchiamento, renda l’osservazione poco accurata. Invecchiare porta sia la preziosa occasione di entrare nei panni di quelli che fino a poco fa consideravi altro da te, che l’imbarazzante sensazione che spesso avessero ragione loro, e che tutto si ripeta uguale da secoli e tu eri convinto fosse la prima volta, quando avevi trenta o vent’anni meno. Sto molto generalizzando, naturalmente.

Però ci sono un paio di cose – ripeto, è un’impressione – che mi sembra possano essere invece più attuali, nel “conflitto tra generazioni” che accade in ogni epoca e di cui ultimamente capita spesso di leggere, in una sua declinazione o un’altra. E non parlo di tutta la retorica sulle “responsabilità verso i figli”, sul “mondo che lasciamo”, sulle “nuove generazioni sfortunate”: in cui, ci fosse anche del vero (da generazione di mezzo, boomer per due settimane, continuo a sentirmi abbastanza esentato), mi pare di osservare soprattutto un paternalismo egocentrico da parte dei boomer, una ricerca di protagonismo, di  sopravvalutazione di sé e di conservazione di ruolo – fosse anche quello di autocritica autocompiaciuta – il cui risultato è di dare molti alibi vittimisti e di demotivare e deresponsabilizzare quelle nuove, di generazioni. Ma appunto, è un discorso lungo e altro.

Sto molto attento, invece, a quello che succede nei giudizi e nelle distanze tra le generazioni, perché mi capita di trovarmi in difficoltà nel tenere due posizioni uguali ma speculari, a seconda di con chi mi trovi: da una parte noto un frequente giudizio sprezzante da parte di venti o trentenni nei confronti di chi ne abbia sessanta o settanta (“quello è un vecchio rincoglionito”, e non ha nessuna percezione del mondo com’è oggi e della contemporaneità in cui abitiamo noi), dall’altra noto un simmetrico giudizio sprezzante da parte di sessantenni o settantenni – o persino cinquantenni, o persino io – nei confronti di chi ne abbia venti o trenta (“non sanno niente del mondo”, e sono convinti di scoprire tutto loro, con grandi ingenuità e ignoranze).
E il fatto è che credo che siano vere entrambe le osservazioni, e che però lo stesso il giudizio sia sbagliato. Le generazioni – stiamo sempre in grossolane generalizzazioni delle generazioni – sono bolle come tutte le altre bolle. Dall’interno della bolla ogni cosa è vera e radicata in una realtà, ma bisogna avere consapevolezza di essere in una bolla e che quella è una delle realtà. Viste da fuori, sono vere sia la perdita di contatto con gran parte della contemporaneità da parte dei “vecchi”, che l’ingenuità rispetto al sapere e all’elaborazione già avvenuta da parte dei “giovani”.
Sono condizioni vere, e sono “normali”, sempre avvenute. Con una differenza, oggi, e ora ci arrivo.

(inciso: ho l’impressione, tra l’altro, che i giovani apprezzino molto ciò che i vecchi possono raccontare del passato, ma che si irritino gelosamente rispetto a ogni osservazione sul presente e su di loro, ed è un’impressione preziosa e da considerare per chi cerca ancora di fare un lavoro di informazione)

Ma prima voglio anche dire che lo sprezzo, e a volte il risentimento, espresso nei confronti di queste differenze, è esattamente una forma di razzismo, tecnicamente. Gli americani lo chiamano “ageism” riferendolo soprattutto alle discriminazioni nei confronti dei vecchi: ma vale in ogni senso. Giudicare qualcuno come “inferiore” perché è vecchio, o perché è giovane, è lo stesso processo discriminatorio e pregiudiziale che applichiamo nei confronti di molti altri “diversi” solo perché sono diversi da noi. Questo, i difensori dei diritti che – spesso anche con benevolenza e nessun cattivo sentimento – applicano atteggiamenti di sufficienza nei confronti di generazioni diverse dalla loro (“è un vecchio”, “è un ragazzino”) bisogna che lo abbiano presente: da una parte è naturale e spiegabile, come molti atteggiamenti nei confronti di chi è “diverso”, dall’altra bisogna fare ogni sforzo razionale per riconoscerlo e non farlo diventare discriminazione, pratica o intellettuale.

La differenza che mi sembra possibile individuare in questi tempi, invece, è un’accelerazione anche di questi processi: mi pare che la “distanza tra le generazioni” in termini di riferimenti, di modi di vedere e concepire il mondo, di criteri di giudizio e di percezione delle cose, possa essere diventata ancora più grande di un tempo in conseguenza delle accelerazioni dei cambiamenti di questi decenni che ben conosciamo e che non c’è bisogno di rielencare. Il mondo intorno a un ventenne di oggi è pazzescamente diverso dal mondo intorno a un ventenne di trent’anni fa, molto più di quanto non fosse quest’ultimo da quello di trent’anni prima, eccetera. Ciò che un ventenne di oggi chiama “il mondo” e vive come il mondo, è diventato più distante da ciò che fu la formazione intellettuale e di esperienze di chi oggi ne ha cinquanta oppure settanta. E quando pensano, riflettono e parlano, queste persone diverse parlano di cose i cui punti in comune sono diventati molti meno. Almeno mi pare.

Niente di tutto questo è un problema o di certo non merita nostalgismi: anzi molto probabilmente è una ricchezza, una volta che se ne abbia consapevolezza. Ma la consapevolezza è importantissima, e la stessa condizione asimmetrica di privilegio e maggior rilevanza dei giovani rispetto al futuro è oggi molto attenuata dall’allungamento della vita media e dalla prevalenza quantitativa degli anziani nelle nostre società. Se vogliamo “accettare le diversità” come diciamo spesso per altri aspetti, è saggio – ed è un ottimo campo di riflessione e comprensione di ogni razzismo implicito – prenderle in considerazione anche rispetto alle generazioni, ognuna delle quali la sa lunga e breve insieme.

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