Leggo molti quotidiani. Soprattutto la notte, quando escono le edizioni digitali, tra le 22,30 e l’una. Lo faccio un po’ “per lavoro” e un po’ per la curiosità che molti di noi hanno delle cose, soprattutto se fanno i giornalisti e quindi a quella curiosità si è sommata negli anni un’abitudine a pensare che le news siano tutte importanti da conoscere, o quasi tutte, anche se la maggior parte di quelle che trovi sui quotidiani durerà mezza giornata, o due: ma non sai mai del tutto quali. Un po’ come quella vecchia battuta sulla pubblicità (“Metà del denaro che spendo in pubblicità è sprecato, il guaio è che non so quale metà sia”): tre quarti di quello che leggiamo sui quotidiani è tempo sprecato, il guaio è che abbiamo pochi elementi per sapere quali tre quarti sono (gli autori, le testate, alcuni titoli) e che non sono sempre validi. Leggo i quotidiani un po’ per FOMO “professionale” diciamo (ho paura che rischi di servirmi) e per una piccola parte per una ricerca di piacere e di interesse in alcuni articoli, ricerca che ottiene la quota di successi che si ottengono passando una serata intera alle slot machine. Per una buona parte del tempo, invece, sfoglio e scorro meccanicamente, e spesso mi irrito: tiro la leva, premo i bottoni. Mi costa meno soldi delle slot machine, questo di certo: pochi euro al giorno, e quando vinco sono un po’ contento.
Una ricerca fatta da due studiosi stimati – uno americano e uno inglese – e pubblicata nei giorni scorsi dice delle cose interessanti e illuminanti sul rapporto di molte persone con l’informazione. Un articolo che l’ha recensita ha usato un paragone efficace: ci sono al mondo gli appassionati dei film dell’orrore, e ci sono quelli che proprio non hanno nessun piacere e non sentono nessuna ragione di vivere ansie e paure artificiali (io sono tra i secondi, e immagino molti di voi: ma ho molti amici “film dell’orrore”). E allo stesso modo ci sono gli appassionati delle sensazioni generate dalla lettura dei giornali (un’impressione di conoscenza? un piacere abitudinario dello sfoglio? una rincorsa di piccole sorprese e piccole scosse, come nelle dipendenze? una curiosità del cambiamento nel mondo, anche del cambiamento in peggio? una presunzione di partecipazione in qualcosa, ancorché spesso qualcosa di drammatico? un senso del dovere?) e ci sono quelli che non vivono quell’esperienza – e in generale la fruizione delle “news” anche in altri formati – con particolare piacere o come uno strumento proficuo di informazione e di progresso delle comunità a cui appartengono, ma piuttosto come un’occasione di ansia e stress. E questo spiega – assieme ad altri fattori che vengono discussi da tempo e con frequenza – una parte del disinteresse per l’informazione giornalistica, da cui tantissime persone stanno alla larga come esperienza attiva e ricercata: al massimo ne vengono raggiunti involontariamente o occasionalmente. La loro vita è tutta altrove. Ma come dice il titolo della ricerca, prevedono che le news darebbero loro ansia. Come a me un film de paura.
Ad agosto, come molti, sono andato in vacanza e ho fatto un giro poco fuori dall’Italia: la lettura dei giornali digitali è ora identicamente disponibile ovunque, ma dopo qualche giorno entri in un ordine di idee diverso, la sera hai più voglia di leggere delle cose che hai visto al pomeriggio che altro, e percepisci un possibile piacere nello “staccare”, nell’essere appunto “altrove” in ogni senso. Nel giro di due notti ho di fatto smesso di leggere i quotidiani e non ho più ripreso fino a quando sono tornato. E poco alla volta ho anche smesso di andare su Twitter, cosa che di norma faccio con discreta frequenza, per leggere cose interessanti e per confronto con gli altri, surrogato del bar. Tranquilli, non è uno di quegli articoli “ho fatto questa cosa spericolatissima di lasciare i social network e vi dico che sono sopravvissuto!”: metto solo le mie piccole esperienze estive in una cosa invece non rara e più grande, dice quella ricerca: la sensazione “difensiva” rispetto alle news.
Insomma, ho passato buona parte di agosto ricevendo solo brandelli di aggiornamenti che spesso non capivo dalle conversazioni nelle chat della redazione del Post, che ho continuato a tenere d’occhio: e la sensazione era in effetti quella, quella di quando vedete qualcosa di brutto o faticoso che capita altrove e vi dite con preoccupazione e sollievo “meno male che non è capitato a me, che io sono qui al sicuro”. E quella considerazione vi spinge a stare attenti, a non andare in quel posto, a non fare quella cosa: a un certo punto istintivamente, come non mettiamo la mano sui fornelli.
La faccio breve: sono tornato dal mio viaggio, e non ho ripreso subito a leggere i quotidiani, proprio per quella sensazione lì, come quando ogni giorno rimandate “ancora un po'” un impegno seccante (bucato da stirare, macchina da portare a lavare, andare dal barbiere, ognuno ha i suoi). E di fatto non ho ancora ripreso davvero: vado a leggere ogni giorno un paio di cose che vedo segnalate, guardo qualche prima pagina, passo su Twitter al massimo cinque minuti al giorno, leggo il Post, ma non le cose sulla campagna elettorale, leggo a lungo i giornali stranieri. Perché mi stressano e mi deprimono meno: un po’ per i diversi toni che usano e per la maggior qualità dei contenuti, un po’ perché quello che leggo mi riguarda meno direttamente e mi irrita o preoccupa un po’ meno: è un po’ più vicino alla fiction, il mondo altrui.
Ricomincerò presto a leggere sette quotidiani ogni notte, lo so, devo: ma fino a che riesco me ne difendo.
Per chiarezza: qui non sto contestando la qualità dei giornali italiani, tema su cui come si sa tendo a esprimermi. Se non mi piacciono, sono libero di smettere di pagarli e di leggerli – come sto facendo – e loro fanno quello che vogliono per chi li vuole: tra l’altro i giornali costano molto poco. Sto invece provando a capire quella sensazione e a mettermi nei panni delle maggioranze – chi proprio sta alla larga dall’informarsi sull’attualità, anche sui social network: non è un suo interesse abbastanza da affrontarne gli stress – con cui spesso chi studia l’informazione o ci lavora non è in grado di mettersi in sintonia. Oppure decide di non farlo, limitando la bolla dei potenziali lettori a una minoranza (minoranza in cui stanno/stiamo anche tutti i fruitori abituali e quotidiani di news online).
News avoidance la chiamano gli esperti di queste cose, e il titolo della ricerca in questione: “evitare le notizie”. O “elusione informativa” se volete un sostantivo faticoso di quelli richiesti per scrivere tesi in linguaggi polverosi. La presentazione degli autori della ricerca spiega che “mentre gli studiosi di comunicazione politica hanno spesso trattato il consumo delle news come la pietra angolare della buona cittadinanza, abbiamo scoperto che le scelte e le percezioni sul dovere di tenersi informati degli avoiders sono irregolari e poco elaborate, in buona parte per via di una previsione che le news procureranno loro ansie senza essere rilevanti per le loro vite: con il risultato di un coinvolgimento limitato nelle news stesse, e per estensione nelle questioni politiche e civiche. Promuovere società più informate richiede che si affrontino questi radicati punti di vista”.
Non bisogna dare a questi fattori una fondatezza assoluta e un valore universale: la scelta di mantenersi poco informati può dipendere anche da altro (quella di essere male informati dipende di certo anche da altro e da altri) e quando parliamo di news parliamo sia dei fatti che di come vengono raccontati. Ma è importante – per chi vuole appunto costruire comunità che funzionino meglio – mettersi nell’ordine di idee che per molti – di noi – l’interesse per le news non sia un dato scontato, ma una condizione da ottenere lavorando per riequilibrare il rapporto tra stress e beneficio.