Ai tempi miei si diceva “terzo mondo”: e si diceva, “una cosa da terzo mondo”. Lo si diceva per segnalare eccezionali e inaccettabili circostanze in cui le cose non funzionavano dentro a un paese che invece era del “primo mondo”, la sesta potenza economica su quasi duecento stati – e noi fortunati a vivere in quella – e un’idea di costante progresso.
Adesso l’Italia è naturalmente ancora “primo mondo” per ricchezza (pur essendo scesa all’ottavo posto per PIL, e a rischio di nono), ma i suoi servizi – il suo funzionamento – non sono più paragonabili con quelli dei paesi che consideriamo tuttora simili, e sproporzionati rispetto a questa ricchezza. Solo negli ultimi mesi abbiamo parlato di aggravamento dei ritardi ferroviari, di inadeguatezza di servizio di taxi urbani, di mancanza di personale medico e sanitario, di carenze del sistema scolastico. C’è una cronica lentezza dell’amministrazione della giustizia cosiddetta e della risposta alle richieste del sistema ospedaliero. C’è uno stato di trascuratezza permanente dei servizi e della qualità della vita nella capitale del paese. C’è metà del paese – non una novità – in cui le attività pubbliche sono in misure grandi o piccole governate dalla criminalità organizzata, e metà in cui capita che lo siano. C’è una perdita di credibilità della politica a livelli mai raggiunti, che è diventata perdita di credibilità persino dei critici della credibilità della politica. C’è un’incapacità di comprensione e gestione delle nuove problematiche condizioni delle “giovani generazioni”. C’è una crisi immobiliare che impedisce alle città più dinamiche di essere ospitali con le persone che potrebbero contribuire alla loro crescita. C’è un sistema di regolamentazioni fiscali e del lavoro che limita la crescita economica e le opportunità per le persone più giovani. C’è una classe dirigente e intellettuale – teorica e potenziale guida delle opinioni e della costruzione di progetti – che appare nella maggior parte dei suoi rappresentanti guidata da obiettivi di vanità e ambizione personale piuttosto che di costruzione di risultati collettivi.
E tutto questo, e altro ancora, genera una disillusione e una rassegnazione che toglie ogni motivazione a un’idea di bene comune e di progresso condiviso: ognuno percepisce che le cose vanno a remengo e invece che dedicarsi a rimediare si preoccupa di proteggere ciò che è proprio. Perché dovrebbe svuotare il mare – ovvero questa enorme pozzanghera – col proprio secchiello?
Perché là fuori ci sono tante persone coi propri secchielli, ecco perché, e hanno bisogno di vedere i secchielli altrui, di vedere modelli, di non sentirsi sole: di non farsi raggiungere dalla pozzanghera di risentimento, egoismo, indignazione, che si allarga sempre di più. Perché la storia dei grandi progressi civili e del miglioramento delle convivenze – la storia della felicità delle persone e dell’orgoglio delle comunità nazionali – l’hanno fatta i secchielli, non le pozzanghere.
Perché essere nati nel terzo mondo è una sfortuna, ma esserci voluti finire è un’idiozia.
È un paese in declino. Ma come si vede nei film coi feriti gravi, “stai sveglio! stai con me! non mollare!”, e dopo lo recuperano, a volte.