Cambiare il mondo da qui

Oggi esce il primo numero dell’edizione italiana di Wired. Da collaboratore e complice della sua gestazione, penso sia venuto un bel giornale, e che migliorerà ancora. Wired americano è uno dei più bei giornali del mondo, e questo gli somiglia molto, con una necessaria  e inventiva declinazione italiana. Vendere un giornale così a tutte le avanguardie creative e moderne del mondo è relativamente facile (difficile è farlo): venderlo ai lettori italiani è un’impresa nell’impresa, ma il numero degli abbonamenti è molto incoraggiante. Che lettori saranno? Ci abbiamo fatto questo ragionamento.

Quando le cose cambiano – e cambiano, baby – c’è sempre qualcuno che le rimpiange com’erano prima: o finge di farlo, per farsi notare. No, non parliamo di quei frequentatori ed esperti del cambiamento che ne hanno anche percepito le controindicazioni – ogni cambiamento porta con sé una perdita – e sanno valutarlo criticamente, senza per questo rinnegarlo. Ovvero quelli che negli ultimi due anni discutono di internet e delle nuove tecnologie negli Stati Uniti: là qualcuno ha cominciato a segnalare come la rete trasformi la nostra cultura, come Google confonda i nostri sistemi informativi, come i blog incasinino la discussione, come la libertà della rete si traduca a volte in inciviltà. Come le cose cambino, appunto. E il cambiamento non si arresta: lo si capisce e si limitano i danni. È come quando i primi studiosi dell’industrializzazione cominciarono a segnalare che non era tutto progresso e zang thumb tuum: che c’era l’inquinamento, e lo sfruttamento, e il traffico, eccetera. Bisognava buttare l’acqua sporca ma tenersi il bambino: o almeno dargli una ripulita. Niente a che vedere col luddismo ideologico, che pretendeva che si potesse tornare indietro a prima delle macchine e che questa fosse la soluzione ai guai del progresso.
Non lo inventiamo ora, questo paragone: è già stato fatto altre volte, ed è stato usato un anno e mezzo fa in un’intervista che fece notizia. L’intervistato era Elton John, che propose al Daily Mail un nuovo luddismo e la chiusura di internet, a suon di manifestazioni di piazza. Rocket Man che voleva tornare nel suo cottage. Naturalmente, l’avesse detto un altro, nessuno gli avrebbe dato retta. Almeno in Inghilterra.

In Italia, invece, il dibattito sulla modernità del secondo millennio è spesso in mano a commentatori che non distinguono un post da un commento o un mp3 da un jpeg, che pensano che la cultura mondiale si sia fermata a Montale, e che per andare sul sito di Repubblica aprono Google e scrivono “R-e-p-u-b-b-l-i-c-a” nel campo di ricerca. Ma fermiamoci qui: che anche la discussione sulla stagnante condizione italiana, sul suo invecchiamento, sulla sua pigrizia, è diventata paludosa a sua volta. E soprattutto è una discussione sommaria. Perché invece.

È come se in Italia ci fosse una separazione priva di senso (ma dotte analisi sapranno capirne le ragioni) tra un “mondo di prima” che continua a vivere e funzionare con gli stessi canoni e gli stessi tempi del secolo scorso, e un “mondo di dopo” che però non si manifesta più nei contesti del secolo scorso – i giornali, la tv, la politica – che in Italia non si sono mai evoluti. Il primo mondo ha tra i suoi contenuti prevalenti la serata di Miss Italia, gli articoli sulla morsa del gelo e le statuette del presepe, le dimissioni del Presidente della Vigilanza Rai, il veglione su RaiUno, le polemiche sui gay in tv e la paura del nuovo: nelle sue frange più avanzate va su internet per leggere Dagospia su Miss Italia e sul presidente della Vigilanza Rai, o su Facebook perché gli hanno detto che si cucca. È un mondo che ha il mito del passato e che una volta sapeva fare altre cose, e alcune anche bene: come Elton John.

Nel 2000 Dave Eggers pubblicò “L’opera struggente di un formidabile genio”, una specie di romanzo autobiografico originale ed inventivo. Eggers aveva trent’anni, ed ebbe molto successo tra i suoi coetanei. In Italia, fu uno dei primi casi di un’opera anglosassone che cominciò a circolare diffusamente prima di essere tradotta (poi sarebbero venuti 24 e Lost e Mad Men, e la Coda Lunga). Da un paio d’anni eravamo nel boom di internet (e nella bolla): che di fatto significava che i giornali esaltavano senza capirla qualunque cosa avesse a che fare con la rete, ma anche che una crescente minoranza di più o meno coetanei di Eggers aveva cominciato a padroneggiarla, la rete. Il nuovo vero, non quello che avanza. Perché non si trattava di fare le cose di prima con altri mezzi, o di farne di più: significava proprio fare altre cose, e immaginarsi mondi e vite diverse. Come hanno fatto le persone raccontate in questo numero di Wired, per capirsi.

Ma allora era una piccola rete: ognuno di quelli che ordinavano Eggers su Amazon convinti di aver fatto una scoperta non sapeva che c’erano altri, a Roma, a Palermo, ad Ascoli, a Trieste, che avevano fatto la stessa cosa e se lo stava godendo. I primi che si erano tuffati nel Bengodi dei giornali stranieri online, della musica da scaricare via FTP (prima ancora di Napster), della costruzione di propri siti in HTML, tag dopo tag, sapevano pochissimo gli uni degli altri. Non erano ancora rete. Meno che mai duepuntozero. Ma erano dentro a un sistema nuovo che permetteva loro di conoscere meglio il mondo e i modi per migliorare se stessi e lui: il mondo.

Il cambiamento di questi vent’anni non è stato solo internet: ma internet è sempre stata intorno e dentro al cambiamento, e lo ha accolto e accompagnato. Non c’è voluta la rete a dimostrare che più cose sappiamo, più informazioni scambiamo, più differenze condividiamo, maggiore è la selezione del buono e le chances di ottenerlo. Ma la rete è diventata il posto dove tutto questo avviene più rapidamente, e dove tutto sembra possibile: dove ogni cambiamento dice che un nuovo cambiamento è possibile. Dalla velocità dei processori alla crescita delle democrazie. A un presidente nero.

La cosa più formidabile capitata a un paio di generazioni in questo decennio è stata lo scoprirsi, il riconoscersi, e trovare un mondo nuovo a propria misura, senza doverne occupare uno esistente e dovercisi adattare. Se non c’è stato scontro generazionale negli ultimi vent’anni, è perché i nuovi arrivati si sono diretti altrove e hanno lasciato i vecchi là dove stavano: bene o male che sia. Ma quel vecchio mondo è sempre più piccolo e stretto. Quelli che dieci anni fa ordinavano Eggers su Amazon, e scaricavano “The great beyond” dei REM un mese prima che uscisse, che non dovevano più aspettare due settimane per leggere Wired, che capivano i deliri del Millennium Bug, e leggevano online l’ultima striscia dei Peanuts della storia, chi erano? Cosa sono diventati? Cosa hanno fatto di quello che hanno imparato?
Due anni fa l’Economist ha pubblicato un ritratto di Dov Charney, fondatore e capo di un’azienda-icona dell’abbigliamento giovane americano. Qualunque cosa pensiate del post-benettonismo dei suoi prodotti, Charney disse di aver individuato il suo pubblico in quella che chiamò “cultura mondopolitana” (“”world-metropolitan culture”). Il secondo mondo di cui parliamo – il mondo di Wired, non si fosse capito – è questo. Mondopolitani. Persone curiose del mondo e di quello che vi succede, che sono consapevoli della centralità delle tecnologie e delle condizioni urbane nel presente e nel futuro (ma non per questo non si sanno godere il vento nei capelli), che hanno cultura e occasioni per seguire molti interessi e non trascurare tutte le chances e le passioni che la rete e il Duemila offrono. Che hanno interessi ovunque, e su tutti l’attualità internazionale, la tecnologia, la musica, l’America, la cultura pop. Che non sono necessariamente geek, ma sanno che la tecnologia fa girare il mondo: dai suoi server alla sua filosofia. Non hanno tutti la stessa età, ma a occhio hanno più di vent’anni e meno di cinquanta, “ibridi”: si ricordano del mondo di prima abbastanza per capire e godere il mondo di dopo. E per tenerselo stretto, il mondo di prima, quando hanno voglia di una crostata di lamponi o di un ideale: quelli erano ottimi già allora. Hanno come modelli culturali i paesi anglosassoni e le loro modernità, ma non gli bastano più. Non si riconoscono nella programmazione da pensionati della gran parte delle reti generaliste ma nemmeno in quella da tiratardi-nei-centri-commerciali dei palinsesti giovanilisti. Hanno caro il mondo ma non sono ideologici. Viaggiano, hanno imparato a conoscere posti che glielo avessero detto da bambini non ci avrebbero creduto. Sono affezionati ai posti che conoscono, ma non pensano che lavorare all’estero sia un ripiego, una fuga, una sconfitta: è una fortuna. Privilegiano internet come fonte di informazioni, spettacoli, divertimento, cultura. Credono che Wikipedia sia eccezionale, e sanno come usarla. Hanno trovato nel mondo e nella rete quello che i giornali italiani, la tv italiana, la politica italiana, non riescono più a dar loro: ma sono consapevoli di come le nuove tecnologie li hanno cambiati, delle cose che hanno perso. E fanno un sacco di cose, mentre il mondo di prima parla di Miss Italia.
Ma soprattutto, questo mondo di dopo conosce se stesso, la sua forza e la sua indipendenza: è una rete, e ha un solo rammarico. Che il suo paese sia ancora nel mondo di prima.
Ma ci stiamo provando, fratello.

Abbonati al

Dal 2010 gli articoli del Post sono sempre stati gratuiti e accessibili a tutti, e lo resteranno: perché ogni lettore in più è una persona che sa delle cose in più, e migliora il mondo.

E dal 2010 il Post ha fatto molte cose ma vuole farne ancora, e di nuove.
Puoi darci una mano abbonandoti ai servizi tutti per te del Post. Per cominciare: la famosa newsletter quotidiana, il sito senza banner pubblicitari, la libertà di commentare gli articoli.

È un modo per aiutare, è un modo per avere ancora di più dal Post. È un modo per esserci, quando ci si conta.

Abbonamento mensile
8 euro
Abbonamento annuale
80 euro