La sinistra che è uguale alla destra

Sono andato a vedere “Fahrehneit 9/11” con molti pregiudizi. Penso che Moore rappresenti tutte le cose peggiori della sinistra americana e italiana e che ne sia divenuto il disastroso modello. Dopo aver visto “Bowling for Columbine” e aver trovato sgradevoli molte cose che conteneva (la strumentalizzazione dei ragazzini feriti, la vigliaccata della foto della bambina morta, le associazioni ridicole) malgrado la bontà dell’intento, mi documentai molto e scoprii che molte delle cose che Moore diceva nel film erano del tutto false. Penso che sia un demagogo, bugiardo, violento, scorretto e trombone. Penso che in lui abbia trovato sintesi la sinistra per cui non solo il fine giustifica i mezzi, ma che ha addirittura perso del tutto di vista il valore e il significato dei mezzi. Penso che esistano due sinistre, oggi. Hanno intenti simili, spesso. Ma una ha a cuore le sue ragioni, i suoi principi, i suoi valori, i suoi criteri di diversità dalla destra, e pensa che il loro mantenimento sia il suo primo obiettivo e senso. Comportarsi bene, fare cose di sinistra. È la sinistra “diversa”.

Poi c’è un’altra sinistra per cui invece conta innanzitutto la vittoria, anzi più ancora conta la sconfitta dell’avversario. A qualsiasi costo. À la guerre comme à la guerre, senza andare troppo per il sottile e facendosene un vanto. A costo persino di non distinguersi più dalla destra. A costo di diventare – svuotate le sue presunzioni di “diveristà antropologica” – una sinistra “uguale”.
“Fahrehneit 9/11” è un film bruttino e noioso. Lo ha già scritto su Vanity Fair Gabriele Romagnoli, ed è indiscutibile che gli eventuali pregi o successi del film non abbiano nulla a che fare con una presunta qualità artistica o creativa, malgrado i riconoscimenti ingannevoli come quello di Cannes. Lo stesso Moore, in questo, non ha mai onestamente vantato altro che i contenuti, del suo film. La confezione del quale è sbrigativa, povera, banale, le invenzioni vecchie ed elementari. Qualcuno ha provato a sopravvalutarle sostenendo che era intenzione del regista portare il linguaggio televisivo nel cinema. Ma se è vero che il film ha molto di televisivo – i meccanismi ricordano continuamente i servizi esterni di Striscia la notizia, legittimando la tesi per cui Moore sarebbe una specie di Gabibbo degli americani – è perché è stato costruito appunto con quella mano sinistra tipica di molte produzioni tv.

Se non la forma, ciò che è forte in “Fahrenheit 9/11” sono alcuni contenuti. Per l’esattezza, quei contenuti in cui la mano del regista e le sue forzature a tesi sono assenti: tutte le riprese del presidente Bush, in diversi contesti e situazioni, proposte tali e quali allo spettatore, sono più rivelatrici dell’inadeguatezza dell’uomo di qualsiasi costruzione complottarda operata dalla voce fuori campo di Moore e dai suoi accorgimenti di montaggio. In queste parti, il film è molto più efficace di quanto i miei pregiudizi immaginassero. Anche se i giornali americani in cerca di spettatori repubblicani a cui il film faccia cambiare idea stanno faticando molto. Per il resto, ci sono paranoie antisaudite (banalmente razziste) smentite perfino dalla Commissione sull’Undici settembre, e pretese ridicole che i deputati americani firmino dei fogli per “mandare al fronte i propri figli”, come se fossero i genitori a decidere del destino di cittadini maggiorenni. Cose così.
Il successo del film ha quindi due ragioni. Una, meritevole, è quella di mostrare parti di realtà illuminanti per capire chi governa gli Stati Uniti. L’altra, più discutibile, è quella per cui al pubblico piace sentirsi dire le cose che già pensa, e piace sentirsi trattato come il giusto protagonista di una battaglia per la verità. In questo senso in America il successo del film è stato da subito associato a quello della Passione di Mel Gibson, con solidi argomenti. Entrambi i film si rivolgono a un loro pubblico militante che vive la propria appartenenza in modo catacombale, aspettando il ritorno della propria verità, che le pellicole annunciano. Entrambi si sono fatti marketing vantando presunte censure o campagne – in realtà insignificanti – di un qualche “potere” ai loro danni. Entrambi i film hanno avuto un clamoroso successo (l’uno imparagonabile all’altro) grazie alla partecipazione devota e battagliera al proprio messaggio (per entrambi quello di una verità troppo a lungo taciuta), e su null’altro. Né la qualità del film, né il dettaglio dei suoi contenuti ha avuto importanza in ciascun caso.
E se tanta devozione è tutto sommato normale per un film religioso, è una cosa impressionante per un film di propaganda elettorale. E qui sta il grande merito di Michael Moore.

Il grande merito di Michael Moore sta nell’aver portato al successo e all’attenzione mondiale, sulle copertine e nei telegiornali e nei dibattiti, la radicale divisione all’interno della sinistra. Che vale in America come in Italia come in molte altre parti del mondo. La divisione tra la sinistra “diversa” e la sinistra “uguale”. Mentre sono poco rilevanti gli oppositori da destra – prevedibilmente indignati dai contenuti del film – è la quantità e la qualità dei critici di sinistra di “Fahrehneit 9/11” a fare impressione. Abbiamo già citato Romagnoli, per fare un esempio, ma in America Moore è ormai odiato a sinistra almeno quanto è amato. Il giornalista e scrnittore liberal Paul Berman lo contesta sistematicamente da quando Moore censurò un suo articolo sul Nicaragua che secondo lui rischiava di dare una mano a Reagan. Lo stesso Moore ha raccontato (anche a Vanity Fair, due settimane fa) di non voler appoggiare esplicitamente Kerry. I siti internet che dimostrano le falsità dei suoi film sono sia di destra che di sinistra. E le accuse che gli vengono – lo stesso Kerry è stato alla larga dal film e dal regista finora, comprendendone il doppio taglio – sono sempre le stesse: falsità, demagogia, violenza, slealtà.
E tutto questo riguarda molto l’Italia. In Italia, il conflitto interno alla sinistra si riassume semplicemente: è la vecchia questione del fine e dei mezzi. È la vecchia questione se qualsiasi principio, criterio, valore, debba essere sacrificato per il raggiungimento di un elevato obiettivo (nella fattispecie, la caduta del governo Berlusconi). C’è chi pensa di sì, e c’è chi pensa di no, e le due parti sono molto ai ferri corti, con accuse di fascismo a una parte e connivenza col nemico all’altra. Benché la presunzione di “diversità antropologica” delle persone di sinistra sia diffusa in ambo i campi, è qui che se ne dimostra il fondamento. Esiste una sinistra “diversa”, che si definisce per voler avere valori e modi diversi dalla destra, nella tolleranza, nel rispetto, nella stima delle regole e del prossimo, e a cui Moore non piace; ed esiste una sinistra “uguale” per cui sarebbe stupido lasciare alla destra delle armi solo per il fatto di ritenerle sbagliate, e che è entusiasta di avere finalmente un campione come Moore, forte della stessa faziosità e prepotenza dei più comuni aizzatori di destra (gli italiani di sinistra uguale hanno finalmente uno con i modi di Antonio Socci e il fisico di Baget Bozzo, e il fanatismo di entrambi). Perché a sinistra non si dovrebbe mentire, se lo fa la destra? Perché a sinistra non si dovrebbe abusare del proprio potere, se lo fa la destra? Perché a sinistra non si deve desiderare e compiere il male dell’avversario, se lo fa la destra? Perché a sinistra ci si dovrebbe sottrarre a demagogie e strumentalizzazioni, se non vi si sottrae la destra? Perché essere “diversi” e migliori, se i migliori perdono? Niente è sbagliato, se guida alla vittoria, se serve a fargliela pagare, e soprattutto se lo fanno anche gli altri. Tutto questo vi ricorderà qualcosa, e adesso ci arriviamo.

La frase che sostiene meglio di ogni altra le ragioni della sinistra “diversa” l’ha scritta Thomas Friedman, commentatore liberal del New York Times, a proposito del rapporto tra le democrazie e il resto del mondo dopo l’11 settembre. È una frase molto bella e che dovrebbe essere ricordata spesso (anche a destra). Friedman concluse un suo articolo così: “Noi siamo i buoni, vediamo di dimostrarlo”. Esiste una differenza tra il bene e il male e questa differenza va praticata, sono le due cose essenziali che dice Fredman. L’encomiabile pretesa di essere nel giusto deve passare attraverso la sua dimostrazione continua e inderogabile. Pensare invece di essere nel giusto per definizione, e quindi di essere in diritto di ogni cosa per affermarlo, genera e ha generato mostri. Questa è una delle cose più tristi della contrapposizione tra sinistra diversa e sinistra uguale: che essa sembra discendere esattamente dalla contrapposizione tra comunisti e anticomunisti, a sinistra. Pensateci.
Michael Moore è oggi l’emblema della sinistra uguale. Quella per cui la differenza con la destra si mostra quasi unicamente nella bandiera. Non sarà un caso se uno dei più seguiti oracoli della sinistra uguale è un uomo dai modi e dai pensieri biecamente di destra come Marco Travaglio. Non sarà un caso se il giustizialismo forcaiolo tradizione della destra benpensante ha trovato spazi accoglienti tra la sinistra uguale. Non sarà un caso se il pacifismo di una parte della sinistra uguale è così aggressivamente bellicoso. Un lettore del Foglio di buona memoria ha di recente trovato questa vecchia cosa scritta da Furio Colombo, oggi direttore dell’Unità, giornale maggiore della sinistra uguale: “Ecco il punto a cui voglio arrivare, quello che a me sembra il problema storico del pacifismo italiano. Esso è parte di una cultura che, per ragioni della nostra formazione storica, retorica, logica, chiede di avere un nemico. Ora, come può avere un nemico il pacifismo? Si tratta di una contraddizione, ma a me sembra che la cultura italiana, fondata su una tradizione filosofica di antagonismo, forzi inconsciamente molti militanti giovani a portarsi addosso questa contraddizione. Ovvero l’impossibilità di vivere senza un nemico. Ecco il disagio che mi sembra di cogliere nella definizione del pacifismo italiano: resta forte (più dannoso se inconscio) il problema del nemico”. Parole chiarissime, e confortate in modo impressionante dalla successiva testimonianza personale di Colombo.

In italia, pensare di unire la sinistra, tutta la sinistra che si dice tale, è un esercizio professionale e sentimentale che legittima la vita di molte persone. Ma alla luce di quel che abbiamo detto, è un esercizio che non ha altro senso. Eppure, mentre nessuno pensa oggi di unire il centro – da Rutelli a Berlusconi, che sono entrambi di centro – lo spauracchio del nemico crea l’illusione che si possa unire la sinistra (si dimostra di questi tempi che è altrettanto arduo unire la destra, che pure va meno per il sottile). Illusione sostenuta dal paragone con gli Stati Uniti dove esisterebbe un partito unico di sinistra. Che però non solo non è “di sinistra”, non solo ha come leader e candidato un uomo favorevole alla guerra in Iraq, ma non è neppure unico, come il partito di Ralph Nader e il suo peso hanno dimostrato.
In Italia, gli unici capaci di unire la sinistra – ed è un risultato davvero straordinario e mai abbastanza riconosciuto – sono quelli di Repubblica. Su Repubblica scrivono senza storcere il naso, tutti: terzisti e manganellatori. Sinistra diversa e sinistra uguale. Ma avendo come principio l’ospitalità nei confronti di mille idee diverse, e la discutibilità di ogni linea salvo l’antiberlusconismo, non si fa un partito. Si fa un giornale unico, libero di contraddirsi e di non dover governare un paese. Su Repubblica scrive ogni giorno Michele Serra, altro caso rilevante, che sta in bilico – uno dei pochissimi – tra sinistra diversa e uguale. Serra è sempre stato di modi “diversi”, pur con qualche cedimento giustificato dall’amore per la satira. L’anno scorso lo incontrai un giorno che aveva scritto una cosa contro la maggioranza che mi sembrava non stesse in piedi, malgrado ne condividessi l’obiettivo. Fu lui che mi rispose “à la guerre comme à la guerre”.

Per il suo film, Michael Moore aveva chiesto a Pete Townshend di poter usare una sua canzone, “Won’t get fooled again”, il cui ritornello tornava buono per prendere le distanze dalla presidenza Bush. Il chitarrista dei Who, già sostenitore dell’intervento in Iraq, gliel’aveva negata, ricevendone insulti e accuse di essere un guerrafondaio. E aveva risposto che evidentemente Moore non si comportava in modo tanto diverso da Bush. È la sinistra uguale.

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Un commento su “La sinistra che è uguale alla destra

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